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La scena vuota e geometrica, riempita solo da tre sedie disposte in ordine, accoglie lo spettatore del “Ritorno”, lasciandogli presagire una serata di grande teatro. Nella pièce di Sergio Pierattini, che Veronica Cruciani ha portato al Piccolo Eliseo di Roma (dove rimane fino al 18 dicembre), si ritrova il piacere di una drammaturgia pura, capace di mettere in campo gli elementi essenziali del teatro: dal comico al tragico, dall’intensità del gesto alle potenzialità espressive della parola. Ne deriva uno spettacolo in cui le diverse componenti si mescolano con equilibrio, per far emergere la forza di un testo importante. La recitazione lo lascia trasparire senza prevaricarlo, comunque offrendo prove attoriali di alto livello. A stabilire la classicità del “Ritorno” è in primo luogo l’ambientazione in un interno familiare, dove troviamo una coppia di genitori stanchi e i loro due figli adulti. Il dramma si gioca nella relazione tra questi personaggi, che si scoprono portatori di dolori non detti e di colpe non perdonate. Ma progressivamente i traumi riemergono sulla scena, tornando ad accendere gli animi dei protagonisti. “Il ritorno” è sicuramente quello della figlia (Arianna Scommegna), che all’inizio dello spettacolo scopriamo essere appena rientrata nella casa dei genitori, dopo un’assenza di molti anni. Ma è anche la madre (Milvia Marigliano) ad essere tornata, miracolosamente scampata alla morte, anche se il figlio (Alex Cendron) avrebbe forse preferito piangerla in ospedale, piuttosto che continuare a scontrarsi con lei. Nonostante gli anni passati, la giovane è costretta ad accorgersi che le dinamiche perverse sono sempre le stesse e che sua madre e suo fratello non comunicano, rinfacciandosi colpe vere o presunte. L’unico ad essere cambiato, o almeno così le viene detto, è il padre (Renato Sarti), che nell’ultimo periodo ha iniziato a parlare da solo e che la notte sta alzato fino a tardi senza ragione. Come notano gli stessi personaggi, nella famiglia non c’è nessuna armonia: la madre è paranoica e comica, i figli silenziosi e duri, il padre leggero e onirico. Eppure, mentre tutti si dicono retoricamente contenti dell’incontro, ma di fatto non riescono nemmeno a sorridere, l’unico a chiedersi se la figlia sia contenta della nuova vita che sta iniziando è proprio il padre. Ma lei, che scopriamo presto essere stata in prigione, nella casa dei genitori si sente ancora più oppressa: «mi manca l’aria! Non sono più abituata a stare qui». L’intreccio di pulsioni passionali e di rancori è legato indissolubilmente ai temi dell’immigrazione, del lavoro, della provincia, del territorio, che Veronica Cruciani ha analizzato con profondità, grazie anche ad una sua inchiesta giornalistica, da cui ha preso vita il testo di Pierattini. Ed è il padre, che da operaio è diventato un «padrone comunista», a incarnare maggiormente la tragedia dello sfruttamento e del lavoro nero. Tuttavia il personaggio di Renato Sarti è il più evanescente, spesso evocato, ma quasi sempre ai margini della scena. Lo spazio teatrale del resto presenta una netta bipartizione tra un fuori e un dentro scanditi dall’illuminazione. Ma il fuori, che è più buio e nel quale non c’è azione, può comunque essere parte dello spettacolo, perché da lì gli attori parlano, si fanno sentire. La regia è attenta a sfumature di questo tipo, su cui fonda la propria grammatica. Ne offre prova il gioco delle sedie, per cui gli attori recitano prevalentemente seduti, alzandosi solo quando si apprestano a lasciare la scena. Oltre ad accentuare la gestualità minima, questa stasi del corpo esalta la parola, che domina lo spazio, arrivando allo spettatore in tutta la sua intensità.