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Il Festival delle Colline Torinesi, alla sua diciasettesima edizione, propone in prima nazionale il 15 e 16 giugno nella sala della Cavallerizza Reale, questa drammaurgia di Rainald Goetz,  terza parte della trilogia “Krieg”, nella versione elaborata sul testo francese di Olivier Cadiot e Christine Seghezzi dal drammaturgo Hubert Colas. In scena, con una performance eccellente che talora sembra eccedere lo stesso testo alla ricerca

di luce in una profonda oscurità, il giovane Thierry Rainaud. Testo difficile e spigoloso, che talvolta ferisce anche profondamente, si presenta come una guerra senza quartiere e forse senza speranza tra la parola, ed il suo carico di limiti e schiavitù, e l'intima identità dell'individuo di fronte ai passaggi essenziali della sua vita, qui è il momento della morte, di fronte cioè alla essenza stessa del suo esserci inespresso in un mondo che non vuole in fondo che si esprima. E' un cimento che Goetz squaderna sulla scena in una continua sfida a sé stesso e a noi, e che Hubert Colas affronta con coraggio tentando di ricostruire, attraverso il passaggio in scena ed il carico di senso offerto dalla presenza e dalla interpretazione attoriale, una relazione, una sintassi comunicativa e propositiva. Cimento dall'esito mai scontato che si rinnova ad ogni rappresentazione, ed è questa la forza del teatro anche rispetto ad una scittura aggressiva e provocatoria come quella di Goetz, perchè ad ogni rappresentazione si rinnovano contingenze ed interlocutori. La parola pare uscirne sconfitta, in una relazione con il suo significare e con il suo senso anche strumentale del mondo, messa continuamente in discussione a partire dal novecento con un quesito di difficile soluzione. Non a caso l'intero impianto narrativo e dunque anche drammaturgico pare ruotare intorno a domande e risposte eccentriche l'una all'altra, come se appartenessero a sistemi significanti confliggenti, l'una, la domanda, al sistema della società che organizza, l'altra la risposta, al sistema dell'individuo che vuole sincerità ed identità. Da qui rabbia e ribellione che feriscono il tessuto sintattico, lacerandolo continuamente e facendolo slittare in una logorrea ossesivamente e volgarmente materica. Goetz pare appartenere dunque, e questo testo ne è riscontro, ad una generazione di intellettuali ribelli che sembrano esaurire la loro funzione nella distruzione del senso del discorso ovvero nella enfatizzazzione di questa perdita, ineludibile e quasi inarrestabile, e che nella loro rabbia nascondono però l'angosciosa attesa di una risposta, la forza di una soluzione anche estetica cercata sulla scena. E' dunque una prova difficile quella di Colas ed anche quella di Raynaud che organizzano la provocazione linguistica in un contesto scenografico proiettivo, anche in senso concreto attraverso il gioco della proiezione ritardata e fantasmatica dell'immagine dell'attore che recita, così da disarticolarla e tendenzialmente ricostruirla nella relazione con il pubblico. La scelta della rappresentazione in lingua originale è stata dunque appropriata perchè come insegnava Sanguineti nel suono della parola recitata si può ricostruire il suo senso ormai benjaminamente decaduto se non definitivamente perduto. A proposito di Edoardo Sanguineti, la stessa messa in scena talora ricordava i meccanismi drammaturgici di un suo importante lavoro, purtroppo rappresentato una sola volta, quel “Storie Naturali” in cui la matericità estremizzata della parola ne consentiva un inatteso recupero nel contesto però di un progetto estetico, e non solo estetico, più complesso e consapevole ed anche ben più carico di speranze.