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“Sa cosa vorrei ora più di qualunque altra cosa? Sognare, tornare a sognare. Sono anni che dormo senza sognare, senza avere un sogno da ricordare, che strappi quelle ore notturne alla morte. Sognerei così tanto da far girare la terra al contrario, da farmi scottare di febbre la fronte. Sognerei il palcoscenico di allora e in proscenio il mio sorriso giovane, fresco, ancora libero da questa vita che ti schiaccia”. A Veronica la vita davvero l’ha schiacciata. Da ragazza era bella e cretina, al punto da confondere “una volgare bigiotteria per pietra preziosa”: un uomo importante, e con gli anni sempre più potente, che lentamente la annulla nel lusso e nell’abbandono. La ritroviamo oggi, quando tanto è già alle spalle, con una semplice veste bianca, sola, a farsi compagnia con un bicchiere di vino. Tradita, offesa, umiliata, colma di rabbia e di vendetta. Una vittima che solo in apparenza cerca giustizia, dopo trent’anni passati a ritrarsi sempre più (“una giovane castellana che cura il giardino e collezione arte moderna” dice di sé). In verità, Veronica cerca solo un diverso silenzio: un soliloquio, in cui raccontare la propria esistenza senza nascondersi, rifugiata in quella sua naturale riservatezza che però, adesso, è fatta di sogni, affetti, fantasie. Tutto questo è “Veronica”, l’ultima fatica drammaturgica di Fabio Massimo Franceschelli , apprezzato autore romano, fondatore della compagnia “OlivieriRavelli_teatro”, in scena (in prima nazionale) al Teatro dell’Orologio di Roma fino al 28 ottobre, con la regia dell’autore. Un monologo che prende spunto dalla vicenda umana, e per larga parte pubblica, della signora Berlusconi, in arte (al tempo in cui era attrice) Veronica Lario, segnata dalla rumorosa separazione dal marito. A dare vita a questa misteriosa figura di donna – di cui però il testo lascia giustamente nell’ombra gli aspetti legati alla cronaca per trasportarla su un piano archetipico, intrecciandola ad esempio con le intense suggestioni proveniente da Medea o dalla Nora di Ibsen – è una straordinaria Cristina Aubry, attrice e regista di esemplare bravura, da anni impegnata in un percorso artistico di drammaturgia contemporanea. Alla molteplicità di registri presenti nel testo Aubry risponde con rara maestria, sprigionandone ogni luce, dando voce e corpo, in un continuo gioco di modulazioni e compresenze, a tutte le emozioni contenute nelle parole: il vissuto e la delusione, la rabbia e la ribellione, l’abreazione e il sarcasmo. Un’interpretazione perfetta, quella di Cristina Aubry, anche in considerazione della complessità del testo. Non solo per la ricchezza architettonica (la protagonista parla a un ipotetico “giudice”, come in un processo, poi riporta il dialogo con alcune amiche, e poi si rivolge al marito, e ancora riflette a voce alta, in un continuo alternarsi di piani diversi e cambi di voce e di identità), ma direttamente per la qualità della drammaturgia. Che è sicuramente ambiziosa, “addirittura filosofica” (come scrive il saggista Enrico Bernard nella presentazione), una dissertazione morale sul rapporto di potere tra uomini e donne, su mandanti ed esecutori, sulla menzogna e il Potere maschile. Una testualità (recepita proprio come assieme di diverse funzioni) che lascia intravedere un accurato lavoro di riscrittura e cesello, che intende tenere uniti la vaghezza della meditazione e l’icasticità della parola teatrale, la rarefazione di un altrove e l’immanenza dell’emozione rappresentata. Un’opera, quindi, che potrebbe anche non incontrare un’unanimità di favori, ma che certamente indica una ricerca personale e drammaturgica da seguire con grande attenzione.