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«Siamo una famiglia in fondo» ripete come un ritornello il protagonista di “Soprattutto l’anguria”, come se il sentirselo dire bastasse a confermare quella che in realtà allo spettatore sembra solo un’illusione. Quasi cercando una conferma o un punto fisso su cui ristabilire un ordine, il fratello che ha girato il mondo per portare ai suoi familiari la notizia della presunta morte del padre, nel tentativo di ricomporre intorno al cadavere  i brandelli di un nucleo familiare, sente sulle sue spalle una responsabilità di “capofamiglia”. Ma il personaggio abilmente interpretato da Luca Zacchini affronta grandi temi morali con la leggerezza dell’ironia, in un crescendo di situazioni comiche e paradossali fino al nonsense alla base delle quali c’è però una totale mancanza di comunicazione. Lo spettacolo, da un testo di Armando Pirozzi, che Massimiliano Civica ha portato in scena al Teatro Argentina di Roma, nell’ambito del Romaeuropa Festival 2012,  gioca sul contrasto estremo tra il silenzio totale di Diego Sepe, spezzato solo da qualche inserto musicale, e la logorrea irrefrenabile di Luca Zacchini, che smonta ogni possibile effetto monologo con una gestualità sempre indirizzata all’interlocutore. La regia del resto punta molto sulla presenza scenica di entrambi i protagonisti, esasperando i silenzi con la lentezza dei movimenti, sospendendo il dialogo con dei gesti a senso unico, per cui il personaggio di Sepe chiude ad ogni possibilità di contatto. La leggerezza delle parole dell’uno si scontra con la pesantezza di ogni movimento dell’altro, che è sempre fortemente statico, appesantito da un silenzio che presto si rivela legato ad un dolore non detto. La costruzione di questo intreccio tra monologo e mutismo mi ha ricordato, oltre che il teatro dell’assurdo cui il testo e la regia sembrano spesso alludere, anche l’atto unico di Alberto Moravia, “Voltati, parlami”, in cui però il corpo silenzioso nel finale si rivela quello di un morto. Qui invece l’assenza della parola è compensata dalla forte presenza scenica, che rende quello interpretato da Sepe un personaggio drammaticamente profondo. E mentre si sventola per il caldo umido che lo infastidisce, dopo aver sofferto il freddo nell’igloo dove abita la sorella e il caldo nel deserto dove si è rifugiata la madre, il protagonista parlante dimostra il proprio disagio a contatto con una famiglia di cui pure cerca di ricostruire la storia e di tenere insieme le fila. Disagio simboleggiato in un’ansia di civiltà e urbanizzazione, che lo porta ad affermare preoccupato che  “la cosa in comune a tutti i posti che ho visitato è che non prende il cellulare!”. Ma nella sua smania di comunicare la notizia della trance esoterica in cui è caduto il padre drogato sotto un albero in India, il personaggio cerca anche di imporre una sua verità, sempre che una verità esista, sugli eventi che hanno sconvolto la sua famiglia. “Nessuno può negare la verità”, dice il personaggio di Zacchini e intanto interpreta il silenzio del fratello come un modo per evitare che le parole gli si possano ritorcere contro. Ogni possibilità di comunicare è annegata nel dolore che emerge dietro alla leggerezza delle sue battute per poi azzerarsi completamente appena il cellulare riprende campo.