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Il doppio e l’identico, e in mezzo a questi due poli il mito, il conflitto, il teatro nella sua essenzialità. È una ricerca importante quella condotta da anni (precisamente dal 1997) da Duccio Camerini, attore e regista romano di puro talento, che unisce narrazione, poesia e capacità di visione. L’ultima sua prova è “Antonio e Cleopatra e io”, adattamento della grande tragedia shakespeariana (traduzione di Giovanni Lombardo Radice), andato in scena fino al 4 novembre al Nuovo Teatro Colosseo di Roma, a opera di Associazione culturale musicale Beat 72 e La casa dei racconti (con il sostegno di Todi Arte Festival, Festival del Teatro Rinascimentale di Anagni e Viareggio Shakespeare Festival). Una prova del tutto riuscita, sia per l’alta qualità testuale, centrata sull’interpolazione tra il dettato classico e ampie parti contemporanee, sia per l’efficacia stilistica e visiva, giocata sulla compresenza di un doppio ambiente (quello della tragedia e quello della vicenda attuale) e su soluzioni sceniche di immediata suggestione. La pièce si articola su una molteplicità di piani, sapientemente montati in un continuum emotivo, prima ancora che drammaturgico. L’occasione dello spettacolo è il classico meta-teatro: una compagnia si riunisce a più riprese in un teatro per le prove dell’opera shakespeariana, con un attore-regista (Duccio Camerini, nel ruolo di Antonio), un attore in travesti nella parte di Cleopatra (Salvo Lombardi) e un assistente-suggeritore (Barnaba Bonafaccia). Le prove della compagnia sono incentrate sulla relazione tra il condottiero romano e la regina egizia, che si specchia nel difficile rapporto tra l’attore-regista e la sua compagna (Tullia Daniele). Un rapporto in crisi, “ambientato” su un grande letto matrimoniale posto accanto al teatro fittizio, in cui i due amanti, tra prove casalinghe (anche la donna è un’attrice) e dialoghi serrati, esprimono una disperata tensione amorosa. Vi è poi un ultimo piano, anch’esso straniante: è quello dell’attore-regista che, parlando direttamente con il pubblico, “spiega” alcuni passaggi e accadimenti della tragedia, disseminando così l’intera pièce di ulteriori domande e interpretazioni. Una drammaturgia complessa, costruita su un raffinato intreccio di doppi e coincidenze, di rimandi interni e identificazioni. Nell’interpolazione dei testi, ma soprattutto nel gioco metateatrale, Camerini svela pienamente l’ambivalenza dei personaggi-attori: eroi tragici e maschere grottesche. Immersi nelle passioni (dall’amore alla scena), si rivelano fragili e narcisisti, alle prese con i loro tormenti esistenziali e l’impossibilità di essere diversi da come sono. La riscrittura di Camerini, insomma, punta a rappresentare due grandezze: quella ideale di Antonio e Cleopatra, ormai cristallizzata nel “coraggio di non cambiare mai” (come si dice nel testo), e quella normale di un rapporto di oggi, anch’esso percorso da incomprensioni e tradimenti, in cui la nobiltà si esprime nel ricercare l’amore comunque sia. Un mito che riluce in un altro, un’operazione che solo il teatro, e alcuni suoi importanti artisti (e Camerini è tra questi), riescono a rappresentare.