Il dramma del mese
Pagine strappate di Aldo Cirri
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Pagine strappate ha debuttato il 20 marzo 2006 al Teatro Fara Nume di Ostia Lido (Roma) con Vittoria Viola, Pascal Dell'Anno, Laura Antonini e Giorgio Fiore. Produzione Mimose & Soufflè. E' risultato vincitore, nella sezione sceneggiature, del concorso nazionale bandito dall’aima onlus roma - associazione italiana malattia di alzheimer. Questa la motivazione del premio:
Lo sceneggiato premiato è stato quello di Aldo Cirri, intitolato "Pagine strappate", sceneggiato che mette in scena una malata di Alzheimer, suo figlio, il medico legale ed un’assistente sociale. Altamente drammatica e profondamente empatica, l'opera pone a confronto, da una parte la malata ed il figlio, che hanno saputo creare tra loro una rete di sottili modi di comunicazione imperniati sul leitmotiv della musica; dall'altra il medico frettoloso e insofferente con un'assistente sociale inizialmente indifferente. Man mano che si svolge il dramma, il medico e l'assistente finiscono col lasciarsi coinvolgere e commuovere, entrando anche loro a fare parte di questo dialogo senza parole tra malata e figlio.
L’Alzheimer è come quando da un libro strappiamo una pagina, poi un’altra e un’altra ancora. Finché non ci sono più pagine e resta soltanto la copertina.
(Elie Wiesel, premio Nobel per la pace 1986)
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Di cosa parla
È un testo sul problema dell’Alzheimer. È l’incontro tra la realtà “ufficiale” e quella “familiare” della malattia. Un medico ed un assistente sociale vanno a far visita ad una malata e a suo figlio, saranno questi ultimi due a far capire tutto quel mondo che, nonostante la realtà di una malattia devastante, lega ancora i “sani” dai “malati”. Un mondo dove sono scomparse le normali forme di comunicazione, ma dove ancora gli ammalati riescono a far sentire la loro presenza il loro amore e le loro necessità attraverso le vibrazioni, gli sguardi e le emozioni. Testo vincitore, nella sezione sceneggiature, del concorso nazionale bandito dall’AIMA Onlus Roma - Associazione Italiana Malattia di Alzheimer.
Nota dell'autore:
Da vent’anni scrivo per il teatro, solitamente la mia produzione consiste in commedie e farse e raramente mi sono occupato di drammi o commedie drammatiche per questo, quando mi fu proposto di scrivere un testo sul problema dell’Alzheimer rimasi per un attimo interdetto, non tanto per il fatto che (per fortuna) non conosco il problema né direttamente né indirettamente, ma soprattutto non conoscevo quali reazioni, quali angosce, quali tormenti attraversano coloro che si trovano a vivere vicino a persone colpite da una malattia così devastante. Feci un po’ di ricerche e mi ritrovai immerso in una drammatica realtà a me completamente sconosciuta, un mondo dove ricordi, affetti, memoria e amore evaporano dalla mente lasciando un guscio vuoto. Con l’Alzheimer ci si ritrova ad avere cura di una persona tornata ai bisogni di un bambino, un figlio mai concepito né partorito che non crescerà mai, ma che occuperà tutto il nostro tempo per il resto della sua vita. Al punto che qualcuno, riflettendo su questa inumana condizione di vita, ha detto: “Se per aver diritto ad entrare nel regno dei cieli bisogna tornare ad essere come bambini, le persone malate di Alzheimer sono le più privilegiate”. Nonostante il tema drammatico, non volevo scrivere una cosa lugubre e tragica: tutte le malattie sono comunque aspetti della vita, e la vita, anche la malattia, ha i suoi momenti di serenità, per questo nel testo ci sono anche di allegria e di sorriso che, a mio modesto parere, nei limiti del possibile, non dovrebbero mai mancare. Prima di concludere questa mia riflessione e terminare con la battuta conclusiva del copione, volevo ringraziare gli amici: Vittoria Viola, Giorgio Fiore, Pascal Dell’Anno e Laura Antonini che il 10 marzo 2006 sono stati i magistrali interpreti del debutto della commedia.
“Sapete Eli Wisel, un premio Nobel diceva: “L’Alzheimer è come quando da un libro strappiamo una pagina, poi un’altra e un’altra ancora, finché non ci sono più pagine e resta soltanto la copertina”... io credo che di tutte la pagine che vengono strappate una sola ne rimane: quella dei ringraziamenti. Quell’ultima pagina in cui l’autore ringrazia tutti coloro che l’hanno aiutato a scrivere il libro o che gli hanno fornito notizie utili per raccontare la sua storia. La tempesta della malattia spazza via i loro ricordi, fustiga i loro cuori creando una sofferenza che non possono raccontare. Quella pagina c’è ancora… lo so, è lì da qualche parte… chiede di essere letta per ringraziarci di tutto quello che facciamo e che faremo per loro. Finché esisteranno quelle righe, finché esisterà anche una sola virgola, dobbiamo fare di tutto perché l’inchiostro non sbiadisca, perché il ricordo non si perda.”
Aldo Cirri
Farfalle di Federico Caramadre Ronconi
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Farfalle ha debuttato nella stagione 2003/2004 ricevendo il Premio Fondi La Pastora per lo Spettacolo XXX Edizione e un Premio "miglior attrice non protagonista" ad Alessandra Muccioli nell'allestimento di Valentina Martino Ghiglia in "schegge d'autore 2003".
Per la stagione 2006/2007 è previsto un nuovo allestimento con la regia di Federico Caramadre Ronconi, cui seguirà la produzione di un cortometraggio e un DVD realizzato con il sostegno dell'IMAIE, Istituto per la Tutela dei Diritti degli Artisti Interpreti Esecutori.
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Una nota critica
di Gian Maria Cervo
Un paio di anni fa, un collega, Fabrice Melquiot, mi fece leggere un suo testo che oggi, a pochi giorni dal suo debutto in patria, lo ha consacrato, per giudizio unanime della critica d’oltralpe, come il drammaturgo francese più interessante delle ultime generazioni. Il testo era “La Mia Vita di Candela” ed è stato proposto, in Italia, l’anno scorso, in mise en espace al Festival “Quartieri dell’Arte”. Quest’opera deliziosa che porta dentro di sé tutta la storia della commedia francese, iscrivendosi in una tradizione e rinnovandola radicalmente allo stesso tempo, mette l’uomo sullo stesso piano degli oggetti e degli animali; è, in altri termini, una commedia postumana. Gli uomini, i personaggi che popolano il testo di Melquiot, si rendono ridicoli ogniqualvolta come esseri umani, nel loro ruolo di esseri umani, cercano di mettersi al centro dell’universo e della scena mentre risultano amabili e commoventi quando indagano il loro essere oggetto e animale, il loro essere cyborg e scimmia direbbero forse Toni Negri e Michael Hardt. Scoprirsi “cose tra le cose, cose più fragili delle cose” per usare l’espressione di Huellbecq, rende di nuovo possibile un umanesimo, un umanesimo pieno di ironia, un umanesimo dopo la morte dell’uomo. Credo che “Farfalle”, testo breve di Federico Caramadre prenda esattamente questa direzione. A prima vista, sul piano formale, ti può quasi dare l’idea di una riproposta del teatro simbolista di fine-ottocento, quello che tentava di affermare l’esistenza di una rete di contatto al di sotto di quel mucchio di tessere scollate di una vita mosaico in frantumi. Ma qui, in questo testo, come nella nostra società, anche se dentro una metafisica diversa, quelle tessere non sono più scollate nemmeno apparentemente, non c’è più un dentro e non c’è più un fuori, tutto è connesso a tutto, ognuno è responsabile. I personaggi non sono come farfalle, sono proprio farfalle. Come nella commedia di Fabrice, nel pezzo di Federico ho sentito le figure meno vicine quando tentavano di immettersi in un percorso educativo dell’umanesimo tradizionale e in maggiore simpatia col lettore/spettatore quando cercavano di ridefinirsi. Federico vive in un paesino non molto lontano da Viterbo luogo dove, con il collega Alberto Bassetti, dirigo il Festival di nuova drammaturgia “Quartieri dell’Arte”, così come Fabrice Melquiot abita in un piccolo centro delle alpi francesi. Le tessere non sono più scollate ed esisteranno sempre meno luoghi deputati e territori centrali. Mi diverto a vedere due autori che sono la prova vivente della deterritorializzazione dell’iniziativa culturale e all’idea che ci siano giovani scrittori italiani con la voglia e le potenzialità di entrare dentro un grande dibattito sullo sviluppo e la direzione del nuovo teatro di drammaturgia.
Di cosa parla
“Farfalle” è uno spettacolo teatrale di drammaturgia contemporanea che tratta la vicenda intrecciata di tre coppie. Tutto giocato tra aspettative, equivoci e malintesi, è uno spaccato sull’incomunicabilità moderna, che legge con chiave ironica e a tratti pungente la realtà emotiva delle relazioni amorose dei nostri giorni.
Nota dell'autore:
Ho scritto "Farfalle" una mattina che non avevo niente da fare. E si sente. Ero al mare. Caldo, estate, sabbia, e tutte quelle cose lì. Disteso. A immaginare. Invece di un giornale un quaderno per gli appunti. Sei lì, ti guardi attorno, vedi delle coppie, amoreggiano, parlano, discutono, si annoiano, sognano... e pensi, e inizi a scrivere, così, senza un preciso perché, senza un progetto preciso, senza sapere dove andrai a parare. Precisamente. Farfalle è nato così, di getto, tutto d'un fiato, per caso. E mi sembra che questa velocità si rifletta nei suoi contenuti, come nei tempi moderni, o nella quiete di una mattina trascorsa in riva al mare. Farfalle è proprio questo, è "usa e getta", come i personaggi di cui parla, senza alcuna pretesa. Forse.
La Maria Zanella di Sergio Pierattini
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La Maria Zanella ha debuttato nella stagione 2002/2003 con la regia Maurizio Panici e con Maria Paiato nell'allestimento a cura del Teatro Stabile di Bolzano, costumi di Sandra Cardini e luci di Sara Pascale. Nel 2005 Maria Paiato ha ricevuto il Premio Ubu come migliore attrice dell’anno per l’interpretazione di Maria Zanella. Nel 2006 lo spettacolo è stato ospite della stagione del teatro Franco Parenti di Milano. E' tuttora in tournèe per la Argot Produzioni. Le prossime date: al Teatro MANZONI di Pistoia il 17/01/2007 e al Teatro GOBETTI di Torino dal 24/01 al 28/01/2007.
Nota dell'autore:
Una casa che reca ancora sulla facciata i segni, la riga nera, dell'alluvione, quella accaduta in Polesine nel 1951. Il testo racconta le paure, le angosce e le malinconie vissute da Maria Zanella, costretta dalla sorella a vendere quella casa, rovinata dall'alluvione, dove è nata e cresciuta e che è intrisa dei suoi ricordi. Maria riuscirà a dare un'originale risposta alle sue paure, quelle che l'assalgono di notte, e che sono quelle di tutti coloro che conoscono l'inesorabile dolore del distacco da ogni luogo affettivo. "Mi capitava da bambino di svegliarmi di notte e pensare … 'Oddio … e se oggi dovesse morire mio padre … mio fratello … o addirittura il gatto?' Si soffriva come cani. Poi uno si abitua anche perché con gli anni ti accorgevi che le infauste profezie purtroppo erano più che mai veritiere. Una delle mie più angoscianti paure notturne riguardava e riguarda tutt'oggi la perdita della casa dove sono cresciuto, fenomeno che inesorabilmente dovrà prima o poi accadere, visto che paghiamo l'affitto e che le mie risorse economiche sono piuttosto scarse per pensare di acquistarla"
Sergio Pierattini
Nota di Maria Paiato
Con l'incoscienza della giovinezza, solo con quella, ho voltato le spalle al lavoro sicuro di ragioniera, ho lasciato il mio paese, la mia casa e la mia famiglia e sono partita per la Capitale. Il giorno dell'esame di ammissione all'Accademia Nazionale d'Arte drammatica Silvio D'Amico sentivo fuori, nell'atrio dell'Accademia, tutto un gran parlare di un tale Aldo Trionfo, di quanto era importante, dei suoi spettacoli bellissimi ... istintivamente capii che era meglio tacere e ascoltare, perché questo mondo era veramente complicato e sconosciuto... Quei tre anni d'Accademia sono stati fondamentali ho conosciuto, da vicino!!!, gli attori che avevo visto solo in televisione o al cinema del mio paese: Monica Vitti, Paolo Panelli, Gastone Moschin ... e i registi degli spettacoli che avevo visto a Ferrara con l'abbonamento-giovani al Teatro Comunale. La mia carriera di spettatrice cominciò con uno spettacolo di Ibsen "L'anitra selvatica" di "uno" che si chiamava Ronconi ... piuttosto difficile, non capivo un granché, ma la professoressa mi spiegò che era per via dello "straniamento" ... Poi, sempre "di questo qui", ne vidi uno bellissimo "L'uccellino azzurro". Stupendo, pieno di colori, maschere di ogni tipo, voci bellissime, una di una donna in particolare che faceva il gatto ... chi l'avrebbe mai detto che sarei diventata l'allieva di questo regista pazzesco... e di Bolognini, quello dei film con Giannini e la Muti! Apprendere, stupirsi, studiare, adattarsi, provare, provare, pazienza, riprovare ... le scene e riprovare anche nelle occasioni della vita. I primi lavori da professionista sono stati con "La festa mobile", la cooperativa teatrale che Pino Quartullo fondò con i suoi compagni d'accademia nel'83 e di cui ho fatto parte anch'io, quasi fin dall'inizio. Sono stati quattro anni di lavoro faticoso, intenso e esaltante, ma lì per lì non mi rendevo conto di quanto mi avrebbero fruttato poi ... Ho fatto da allora incontri importanti, alcuni meno, spettacoli belli e altri no ... Tutto serve e talvolta sono quasi più orgogliosa delle esperienze difficili, di quelle che sul momento ho detestato ... ripensandoci mi dà veramente l'idea di mattoni che uno accanto all'altro diventano una casa... magari un palazzo! E ora che mi hanno chiesto di scrivere alcune righe biografiche (... la produzione lo vuole!) vorrei dire che ripensare a tutto quello che è stato fin qui mi procura una sensazione di tenerezza e di soddisfazione, .... e che mi piace tanto la mia origine provinciale e contadina che mi ha sempre dato ottimi spunti e suggerimenti, soprattutto per quest'ultimo personaggio la Maria Zanella, scritto da Sergio Pierattini (con cui ho condiviso - anche se in classi diverse - l'esperienza dell'Accademia), e diretto da Maurizio Panici, un regista con cui ho un'intesa profonda e proficua. La Maria Zanella è una piccola donna polesana con problemi psichici che non la rendono pericolosa ma solo struggentemente ingenua, un'eterna bambina ... La Maria Zanella è fatta dei modi di fare di mia madre, di mio padre ... Quando ho studiato questo monologo mi sono resa conto di quante cose ho osservato e registrato da bambina guardando i miei parenti, ascoltando le donne che le sere d'estate parlavano di nascite e di lune, di ricordi di guerra, di aneddoti comici... La Maria Zanella è tutto questo e anche l'opportunità di fare "il teatro" con la musicialità poco conosciuta del polesine, dei suoi argini che contengono il brontolio sommesso del Po, dell'orizzonte piatto delle campagne e del suo silenzio.
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La critica:
La Maria Zanella ... è un atto d'amore doloroso, come una partitura sulla memoria, sulla perdita di identità e sul desiderio di non essere abbandonati a sé stessi, questo flusso di parole cui la protagonista dovrà dare il senso di ricordi rimossi per distrazione, la consapevolezza di non sentirsi amati per quello che si è.
(Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica, 17 maggio 2002)
Maria Paiato è un'attrice capace di dare vera emozione. Mobile, vera, asciutta, senza un gesto o un tono retorico, restituisce la figura tenera e drammatica di una giovane donna della bassa padana, segnata nella sua salute mentale dalla alluvione del 1951.
(Paolo Petroni, Corriere della sera, 28 maggio 2002)
Dietro la storia di La Maria Zanella, storia di ordinaria follia di una donna segnata per sempre dall'alluvione del Polesine del 1951 descritta con struggente verità nel bel monologo di Sergio Pierattini interpretato dalla bravissima Maria Paiato, dietro la riga nera che il Po lasciò sulla casa di Maria, dietro la vita di una piccola donna colpita nel cuore e nella mente dalle acque nere e vorticose in cui cadde da bimba durante la fuga dalla piena, c'è un mondo che sta scomparendo, il mondo contadino con le sue cascine che diventano seconde case e radici che vengono negate e cancellate. [...] E Maria Paiato con la sobria regia di Maurizio Panici offre una bellissima prova d'attrice disegnando con piccole sfumature di tono, con piccoli rabbiosi gesti, con espressioni fulminanti del viso, il mondo della sua protagonista dallo sguardo fisso e rassegnato, dalla mente a pezzi e dal cuore tradito e solo. Uno spettacolo da non perdere.
(Magda Poli, Corriere della sera, 4 dicembre 2005)
Parte da una singolare angolazione spiazzante Sergio Pierattini in La Maria Zanella per raccontare l'alluvione del Polesine del 1951. [...] Questa Maria Zanella è diventata una persona viva grazie all'immedesimazione di una straordinaria Maria Paiato, seduta sua una sedia, il viso scavato con quegli occhi ansiosi che si guardano dentro e feriscono mentre le labbra ci parlano quando la sua cadenza padanale lascia il posto al silenzio, le gambe aperte, sottolineando il succedersi degli stati d'animo con minimi ritocchi dell'orientamento, trepidamente viva in un eloquio che cancella la precisione del calcolo, inarrestabile salvo le sospensioni affidate dalla regia di Maurizio Panici [...] a effetti sonori e musicali nel nero rotto da una sola lampadina sospesa a mezz'altezza. Un'ora incancellabile di profonda emozione.
(Franco Quadri, La Repubblica, 7 dicembre 2005)
Articolo di Matteo La Rovere
Pubblicato domenica 2 aprile 2006 - NSC anno II n. 13
www.ilgiornale.it
La rassegna DOLOneiTEATRI ha ospitato ieri sera lo spettacolo “La Maria Zanella”, interpretato dall’attrice rodigina Maria Paiato, vincitrice del premio Ubu 2005 (finaliste con lei Mariangela Melato e Lucilla Morlacchi). La protagonista di questo monologo è una donna fragile, con dei problemi psichici che la fanno oscillare da momenti di grande lucidità a fasi di forte alienazione dalla realtà. Lo spettacolo è stato commissionato nel 2001 dal comune di Occhiobello per il cinquantenario dell’alluvione, e doveva essere una sorta di documentario alla Paolini. Ma dalla penna di Sergio Pierattini, invece è uscito il diario di una contadina che all’età di un anno è caduta nelle acque in piena del Po. L’incidente le ha creato degli scompensi psichici permanenti, che la trasformano in una donna dipendente dalle cure della madre. Alla morte di quest’ultima, la sorella Luciana che vive a Milano, decide di vendere la casa di famiglia e assicurare a Maria l’assistenza di un istituto. La sofferenza della protagonista è talmente forte che tenterà a più riprese di fuggire dalla realtà attraverso pensieri leggeri ma una volta messa alle strette compirà un gesto estremo ed infelice. La resa di Maria Paiato è molto incisiva, dipinge immagini "lampanti" con gesti e frasi fulminee. Inoltre, un uso sapiente dello spazio e delle luci ha permesso di creare suggestioni sceniche interessanti nonstante il palco fosse completamente spoglio. Ciò che colpisce dell’interpretazione dell’attrice sono i gesti semplici e quotidiani (come il grattarsi il ginocchio, lo stringere un fazzoletto) che danno spessore e umanità al personaggio senza farlo sconfinare nell’eccesso e nella psicosi. Decisamente valida la scelta di non dipingere Maria Zanella come una emarginata che subisce le angherie del paese. La sorella, i vicini, le amiche sono gentili con lei, ma vi è una insormontabile difficoltà di comunicazione tra Maria e il mondo e questo genera amare incomprensioni e fraintendimenti di cui solo spettatore ha consapevolezza. Il sottile gioco di equilibri intessuto da Maria Paiato infonde, da una parte, il desiderio di proteggere Maria Zanella e, dall’altra, di comprendere e compatire la sorella Luciana per le difficili scelte che deve compiere. Non sorprende che quest’attrice intensa ed efficace abbia ricevuto già numerosi premi tra cui La Maschera d’oro, il premio della critica e l’Ubu. Tra l’altro il suo nome è legato a quello di Luca Ronconi, Luigi Lo Cascio e Fausto Russo Alesi, per lo spettacolo “Il silenzio dei Comunisti”, tratto da un epistolario di Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichelin. Quest’estate, invece, Maria Paiato sarà in scena al Teatro di Tindari con la "Fedra" di Seneca. Ci aspettiamo un’interpretazione intensa e poliedrica.
Petronilla Graie di Francesco Suriano
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Petronilla Graie ha debuttato al Festival Benevento Città Spettacolo il 2 settembre 2006 con la regia di Stefania De Santis. Con Sara Bertelà (premio olimpici del teatro 2006) e Evelina Meghnagi. Costumi Claudette Lilly, musica Enrico Venturini, melodie cantate Evelina Meghnagi, luci Löic Hamelin. Produzione Neraonda s.r.l.
in collaborazione con il Festival Internazionale di Montalcino e con il Festival di Benevento Città Spettacolo.
Foto Le Pera
Nota dell'autore:
Petronilla Graie è una donna che racconta la storia di una necessità, la necessità di trovare una vita possibile. La racconta partendo da un paese immaginario dell'est europa o del sud europa. La racconta come donna diversa dalle altre donne, sia perché extracomunitaria e sia perché come dice Petronilla: "non ci hanno lasciato vivere nel nostro paese, quello che ci spettava per diritto di nascita... ci siete venuti a chiamare". Vive nel suo orto, vicino a una ferrovia dove non passa mai nessun treno, dove nel casottino degli attrezzi c'è anche una madre. La sua terra da conquistare è l'Italia. "Dio ci liberi da chi ha un solo pensiero" inizia così l'epica minore di Petronilla. E dio la dovrebbe liberare forse dal suo pensiero ossessivo di fuga e da quello di sua madre, Mamuska. Il pensiero ossessivo di Mamuska è che Petronilla si sposi prima che lei muoia, forse "il suo sguardo da Graia fa impietrire gli uomini". Nei racconti che fa alla madre, narra le sue "gesta" cercando di farla felice, di farla sentire fiera di avere una figlia così coraggiosa. Racconta del suo primo viaggio in un camion di cocomeri di cui cercherà di cibarsi perché possiede due denti lunghi e aguzzi, proprio come una delle Graie, racconta del suo viaggio nel mare di Tunisi, nel mar Ionio, nel mare dell'antica Grecia e nel canale di Sicilia, della sua morte e del resuscitare, solo come potrebbero Stimo, Euriale o Medusa. Racconta della sua prostituzione, del divenire, proprio per quella sua lingua lunga, la portatrice di tutte le lingue di tutti i paesi del mondo. Racconta le sue storie usando proverbi, modi di dire, venati da una macabra ironia, duettando con Mamuska, calandosi nei personaggi che ha incontrato nei suoi viaggi. Come un Peer Gynt femminile Petronilla Graie racconta di una ricerca su di sé, metafora di una ricerca collettiva di tanti cittadini del mondo, che chiedono di essere ascoltati in una terra divenuta improvvisamente piccola.
La critica:
Tra le non poche novità italiane proposte al Festival di Benevento e non tutte sicure di trovare spazio nella stagione normale ho ascoltato volentieri Petronilla Graie di Francesco Suriano, variazione su di un tema che si sente riprendere spesso oggi, ossia della ragazza dell’Est che sogna l’evasione a Ovest. (...) Il trattamento del giovane Suriano è fiabesco-onirico, sono episodi che una ragazza così racconta alla madre; non sappiamo se li abbia vissuti veramente, come non sappiamo dove le due si trovino – sappiamo solo che è campagna, che le due sono poverissime (e che gli tocca mantenere gli uomini, per cui ci sono ancora meno occasioni di lavoro), che non c’è quasi niente da mangiare. non sappiamo nemmeno quale sia l’Ovest che la protagonista vagheggia, anche se possiamo identificarlo con l’Italia, bengodi come si sa di tanti derelitti dell’ex comunismo. Piece a due personaggi, dunque, uno statico – la madre, che si materializza a un certo punto – e uno dinamico, la figlia, che si muove, gira qua e là, imita se stessa in varie incarnazioni. (...) Le due attrici sono eccellenti. Sara Bertelà evita il rischio di fare della sua Petronilla una attonita e poetica Giulietta Masina dell’Est, spostandone il registro piuttosto sull’ironia; lei è la prima a ridere di se stessa raccontando le sue disavventure, si tratti di varcare il confine su di un Tir pieno di angurie, una delle quali si è infilata nella sottana a simulazione di gravidanza, ovvero di resistere per tigna a una umiliazione sessuale, quando in un’altra avventura si prostituisce lungo la strada. Non le è da meno la partner Evelina Meghnagi, che rimpolpa le minori occasioni offertele dal testo sfoggiando la sua splendida voce in un paio di canzoni irresistibilmente malinconiche e in una lingua desueta. Un’ora e dieci, e ottimo successo.
Masolino d’Amico – LA STAMPA domenica 10 settembre 2006
Il tema ossessivo di Petronilla è il viaggio che non si compie. Petronilla racconta di come tutti i suoi tentativi, infinitamente pazienti e fantasiosi, di trovare una terra migliore (l’Italia?) vengano sempre atrocemente frustrati, tanto da indurla poi a ritornare al suo orticello stento e alla sua Mamuska. Teatralmente questo tema è sviluppato in un non-luogo surreale dove anche il tempo è una dimensione incerta. E’ tornata veramente a casa Petronilla? E’ mai partita veramente? E poi questa è veramente la sua casa? E chi è veramente Mamuska? Ma allo stesso tempo tutto quello che Petronilla dice è successo, succede ogni giorno. Infatti i suoi racconti deliranti sono versioni soggettive di autentici fatti di cronaca nera. Come quel camion pieno di cocomeri con l’uomo morto dentro...
Stefania De Santis
Ci sono morti che sembrano “meno” morti. Morti che non fanno numero, non hanno peso, non provocano contraddizione nel vederli elencati sulla prima pagina del giornale accanto alle dichiarazioni di Sirchia, un ministro che invece di preoccuparsi di rispettare e far bene applicare una legge vigente, la 194, tuona contro l’aborto come omicidio. Quei 28 esseri umani finiti in mare di cui si è avuta notizia quello stesso giorno, morti prima di toccare le coste italiane, un quarto del “carico” di immigrati, i nuovi “intoccabili”, non conta, non tocca altrettanto e altrettante coscienze. A questi uomini, donne e bambini, a questa marea spesso senza nome, di disperati che cercano una qualunque salvezza dall’inferno, è invece dedicato il sensibile spettacolo Petronilla Graie di Francesco Suriano, una coproduzione di Teatri del Sud e Festival della Val D’Orcia e di Montalcino, che ha debuttato a San Quirico nell’ambito del Festival diretto da Isabella Valoriani. Nel verde rinascimentale degli Horti Leonini è Petronilla (Sara Bertelà) dunque a incarnare l’archetipo “immigrato” a fare il percorso all’inverso, risalire alle origini, ridare frammenti di nome, di storia, di sentimento per quel che c’era alle spalle e che ha spinto verso la terra del desiderio, l’Italia. Petronilla è una nessuna e centomila. Fanciulla di un est imprecisato, con tracce di famiglia come tante: una mamma eccessivamente ansiosa, un padre che sbuffa e muore troppo presto. Poi, le solite cose di pessimo gusto che il destino ti mette in fila quando nasci nel posto sbagliato: la crisi del paese, la perdita del lavoro, niente soldi e tanta fame. Nessuna prospettiva se non quella di partire e andare via. Di provarci, come fa Petronilla, tante e tante volte. E di tornare indietro a raccontare a Mamuska, a mamma e al suo orticello, di come è andata quella volta, il viaggio nascosta tra i cocomeri, o per l’oceano mare, o in treno. Sembrano le avventure di Huckleberry Finn e diventano, strada facendo, incubi mortiferi. Petronilla parte da ragazza piena di speranze e si ritrova corpo di ragazzo soffocato in un camion, zainetto gonfio di povere cose e mezza bottiglia d’acqua che non l’ha salvato dal freddo e dall’asfissia. Oppure nuota coi tonni, pinocchia felice che sguazza e gliela farà vedere lei ai pescatori. Che invece la tirano su, nuda e morta, come quei poveri corpi o resti di corpi che i pescatori siciliani sono ormai abituati a trovarsi impigliati nelle reti, macabra pesca giornaliera in quei tratti di mare battuti dalle navi cargo maledette. Ora è Fatima, il nome preso a prestito da chi le stava accanto ed è sparita tra i flutti, e per salvarsi nel Belpaese finisce a gambe larghe sulla strada, presa a calci e bruciata viva da italiani in vena di spiritosaggini criminali. E’ un viaggio come un’onda che va e torna indietro, che ha nostalgia del suo orto e di affetti, che sceglie di dissolversi proprio quando trova l’identità cercata, altra da se. Anche il testo di Suriano, come molti lavori a tesi, è di ondeggiante efficacia: ti cattura quando sconfina nell’onirico, surreale come un racconto di Muenchhausen, più sterile quando si accosta alla cronaca e ne fa predica indiretta. Ma lascia un segno, un’inquietudine nello spettatore che scopre un’Italia oscura di mali sentimenti. Paese che si fa incubo, matrigna cattiva, cuore nero. Sara Bertelà disegna la sua Petronilla proteica con colorata leggerezza, una treccia variopinta e un grembiule a segnare le sue zelighe trasformazioni, ed Evelina Meghnagi le fa da mami chioccia, armonia remota di affetti, in un dialogo disturbato dalla fonica difettosa ma dalla regia premurosa di Stefania De Santis.
Rossella Battisti – L’Unità 12 agosto 2004 (anteprima al Festival di Montalcino)