Il dramma del mese
Iressa di Lorenzo Gioielli
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Iressa è stato il vincitore della XXXI edizione del Premio Fondi La Pastora per il teatro nel 2006 con la seguente motivazione della giuria:
"un lodevole discorso sulla morte che in teatro viene spesso rimossa, qui invece proposta senza mezzi termini e vista come un fatale appuntamento già prefissato nella sua immanenza, di fronte al quale le reazioni sono diverse e molteplici. Si può senz’altro definire una descrizione senza infingimenti di comportamenti disperati e isterici, e persino polemici di fronte alla vita. Un’opera con tutti i numeri per essere rappresentata.”
Debutterà a Roma al Nuovo Teatro Colosseo il 13 novembre 2007, con repliche per tre settimane. La regia sarà dell'autore. Con Simone Colombari, Enrica Rosso, Siddartha Prestinari, Ivana Lotito, Davide Nebbia e Lorenzo Gioielli. Scene di Caludia Cosenza.
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Nota critica
Struttura cinematografica con un montaggio alternato di scene brevi o brevissime che ritraggono principalmente tre situazioni intrecciate tra loro. Dialoghi rapidi e brillanti, battute folgoranti e ricche di trovate e sfumature allo stesso tempo immediate e profonde. C'è molto in questo testo che racconta principalmente del cammino di un malato terminale nei suoi ultimi giorni di vita: la vita e la morte, l'amore e il sesso, le nostalgie ed i rimpianti, la sincerità e l'inganno. Se è vero che il tema centrale sembra essere la malattia e la morte, in realtà il tutto è raccontato con ironia e leggerezza, e il tutto appare davvero un disilluso inno alla vita, quella con la v maiuscola. I personaggi lottano e si amano, s'ingannano e si aiutano, soffrono e gioiscono, si rammaricano e si prendono rivincite. Non vi annoierete una sola pagina leggendo questo testo. E riderete di gusto. Della vita e della morte.
Marcello Isidori
Come Camus di Paolo Trotti
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Come Camus è stato segnalato alla 47a edizione del premio Riccione per il teatro nel 2003. Questa la motivazione della giuria:
"per la potenza visionaria delle immagini e del linguaggio con cui affronta, col limite di un frettoloso finale d’effetto, una storia di violenza, schiavitù e morte in un’Africa purtroppo ben radicata nell’attualità, in preda a gang di commercianti di droga, tra stragi d’uomini e d’animali e odissee camionistiche, con la capacità di raggiungere un’espressività diretta e fortemente sensitiva".
E' stata realizzata una mise en espace al teatro Out Off nell'ambito della rassegna "Città in condominio", nel gennaio 2004.
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Nota dell'autore
Come Camus è un testo sulla divergenza, sull’incompatibilità e la lontananza. Al di là della vicenda narrata, quello che mi interessava era l’immagine di due estraneità che si incontrano. Due uomini che, in qualche modo, si scambiano una visita, per scoprirsi lontani. Lo straniero è l’amante, l’innamorato, poi l’ospite e immediatamente dopo diventa sconosciuto e nemico. Tutta la bellezza che aveva nella sua casa perde di fascino appena arriva in casa mia. Allora cerco di annientarlo, cerco di scacciare l’immagine che avevo di lui, dove l’ho incontrato. Il testo narra la storia di un furto, quello di una figlia, e del lungo viaggio fatto dal padre per ritrovarla. E del padre che deve a sua volta farsi ladro di sua figlia per riaverla. Furti, ratti, continue perdite di identità e di equilibrio. Dal punto di vista della scrittura ho lavorato sul conflitto continuo, sia della struttura che ad ogni tappa del viaggio, cambia, che nelle relazione che si instaurano/distruggono tra i personaggi. Come Camus è un lungo viaggio verso la possibilità di un’identità diversa. Con i suoi morti e i suoi tradimenti.
'Nzularchia di Mimmo Borrelli
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'Nzularchia è stato vincitore della 48a edizione del premio Riccione per il teatro nel 2005. Questa la motivazione della giuria:
Nel buio ossessivamente martoriato da un’affettata oscurità squarciata dai lampi di una casa invasa da rumori e da una muffa che penetra nei corpi, ‘Nzularchia ovvero “itterizia” svolge una sfida al labirinto, ovvero a un luogo d’origine sfigurato e illeggibile, un gioco d’orientamento e disorientamento nell’ansia topografica della mappa per rintracciare il colpevole. L’autore, giovanissimo e forsennato nella sua ambiziosa loquacità da inferno, uno scrittore furibondo, fluviale, forte, già importante, con un’acuta sensibilità linguistica e un coraggio da leone, riesce a muovere le veglie di una inquieta, informe coscienza retroattiva alle prese con un’indagine impossibile, dove l’indiziato è un padre camorrista che toglie la vita ai figli, impedendone la nascita. Testo sul padre-assassino di una società invertebrata e deviante, seducente per il gioco a nascondere di una lingua che incessantemente osa sfidare i suoi inabitabili cul de sac, inseguendo il vorticoso e inane percorso di una identità mai veramente nata: è quella di un figlio che non ha altre armi se non ricomporre la lingua dei padri, barocca, lampeggiante e a tratti violenta, di quella violenza che è “piatto prelibato nel pranzo succulento della vita”.
Debutta dal 20 marzo al 1 aprile 2007 in prima assoluta al Teatro Mercadante, stabile di Napoli, per la regia di Carlo Cerciello con Peppino Mazzotta, Pippo Cangiano e Nino Bruno. Scene di Roberta Crea, costumi di Antonella Mancuso, musiche di Paolo Coletta, disegno luci di Cesare Accettanato.
Note di regia
di Carlo Cerciello
E' il dramma della paura. Vite malate di paura, incrociano i loro ricordi e fanno cortocircuito. Il processo di ricostruzione della memoria di Gaetano ha bisogno di un testimone immaginario e Gaetano lo trova in Piccerillo, riflesso e vittima dell'asfissia esistenziale di Gaetano e di quella sadomasochista di Spennacore. La messinscena è il viaggio introspettivo del protagonista, il suo ambiente è surreale, allucinato come quello dell'inconscio profondo di Gaetano, intento a dar corpo ai suoi fantasmi, a ricostruire il drammatico puzzle della sua esistenza, attanagliata dall'incubo indelebile di quella tragedia, che non lascia scampo a nessuno dei suoi protagonisti.
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Nota critica di Chiara Alessi
articolo pubblicato su www.riccioneteatro.it dal gruppo Altre Velocità (dal Premio Riccione 2005).
Intanto una definizione: “Nzularchia: itterizia, ittero, febbre gialla. Da ‘nzularcato: parola composta dai termini latini “sub” (sotto) e “arcatus”(arco). Il popolo attribuisce tale male agli influssi dell’arcobaleno, […] nel Salento l’arcobaleno e l’itterizia si definiscono arcu. Da cui Nzularchia. Le ragioni di questo titolo, impenetrabile fin dall’inizio, fin dall’inizio danno ragione anche del mistero linguistico che permea la trama e così, come in un giallo, lo scioglimento arriva soltanto, drammatico, nel finale. Rimane una chiusa circolare, che riprende il tema iniziale e congela l’intreccio in un’unica, struggente, congegnata canzone. Un sessantenne, trascurato nell’aspetto e visibilmente cagionevole ma “sorprendentemente virile”, si aggira “tra i meandri della sua vetusta rocca”, nu mausoleo a tre piazze. Delirante ma circospetto, cauto e allo stesso tempo insofferente per la tempesta che infuria fuori dalle quattro mura in cui si è rinchiuso da anni, Scannacore, ex cammorista che scopriremo atrocemente anche padre omicida, intona un prologo, il rantolo di un parassita spampanato, arrusto comm’a nu sciurillo, ‘u pollice ‘nzeriuso addiventaje cometa, preludio al delirio materico-linguistico che verrà. Dall’altra ala della “tana” fanno ingresso Gaetano, un uomo sui trent’anni e Piccerì, poco più giovane di lui, che potrebbe essere, come l’autore ci rivelerà da lì a poco, anche solo una proiezione di Gaetano, alternativamente figlio, fratello e padre, un compare imbastito come “rappresentazione allegorica e rancorosa del ricordo… una fonte dell’infanzia violata stuprata e per questo mai vissuta, dalla quale le immagini di Gaetano acquistano forma e colore”. Gaetano infatti è lì per vendicare questo sopruso, per liberarsi di un padre assassino e geloso che l’ha privato della cura della madre e della compagnia fraterna del futuro nascituro che la donna teneva in grembo, ma soprattutto per guarire da questa “febbre” di paura inculcata a suon di violenza “prelibata” e terribili prove iniziatiche che trovano proprio nell’acqua, quella del mare come quella degli scrosci tempestosi che infuriano all’esterno, un motivo ricorrente. Se, come vuole l’ideologia magica tradizionale della ‘nzularchia, il colore giallo della malattia troverebbe i suoi prodromi nel gesto del malato di “urinare contro l’arcobaleno”, la ricetta della guarigione è liberarsi proprio di quella malignità gialla che scorre nel cuore. Soluzione aporisticamente infattibile previa la sua morte stessa. E il tragico epilogo infatti non può essere che il suicidio, che incombe come un’ombra attesa dall’inizio e contemporaneamente rimandata alla fine e a un altro personaggio. “Il tutto custipato in una sabbatica e sinistra nuttata ‘i frenesia, vaticinio di orrori inverecondi”, ambientato a Napoli in un vecchio palazzo fatiscente all’apparenza disabitato, nei primi anni Novanta. Ma la sensazione è che, al di là dello sfondo evidentemente localissimo del tema camorrista, potremmo trovarci ovunque, in qualsiasi tempo: l’atmosfera solare partenopea, le strade, i vicoli, il mare, il traffico, il vociare, gli “scugnizzi” e i “femminielli”, cedono qui il posto all’aria plumbea di un’uggiosa giornata di pioggia in cui il silenzio è interrotto solo dalla logorrea dei personaggi che fingono di rievocare un passato che non hanno, negano di ricordare cosa li riconvoca nel presente o monopolizzano il dialogo bluffando incomprensione. Eppure proprio quest’atmosfera linguistica conserva tutto il fascino di una Napoli agrodolce a cui ci avevano abituato i grandi di quella generazione cosiddetta “post-eduardiana”: il noire si tinge dei toni ardenti del lirismo, dei monologhi che sembrano cantati, delle pantomime grottesche dei personaggi che alleggeriscono la gravità dell’insieme. E Mimmo Borrelli, classe ’79, originario di Torregaveta, nei pressi dei Campi Flegrei, alla sua napoletanità ci tiene moltissimo e lo svela fin dall’introduzione sinottica che accompagna il suo testo. Nessuna indicazione contenutistica o tematica, nessuna manovra poetica di sintesi; solo qualche riga scritta a mano: “l’uso del dialetto, che in questo caso convenzionalmente definiremo “flegreo”, nasce dalla profonda, personale e contestabile esigenza di non ricreare una nuova lingua, ma più propriamente di scolpire, con l’umiltà di un artigiano, un piccolo codice cifrato, oserei dire massonico, che renda giustizia e vesta fedelmente le proprie manifestazioni drammaturgico-emotive”. Questo caleidoscopio linguistico richiede sforzi fin dal titolo; a tratti, glossario alla mano e note a fronte, si ha quasi la sensazione di interromperne la musicalità, acquistando maggior criteri cognitivi, ma perdendo l’anima dell’insieme. Ma è proprio questo ciò che piace alla fine: l’idea di aver penetrato un linguaggio cifrato, l’ammiccante soddisfazione di scovare, sotto queste pagine fitte di terminologie all’apparenza incomprensibili, un livello maggiore di comprensione. L’autore ci aiuta, infittendolo di didascalie parafrastiche, ma sembra quasi che quanta più è la libertà interpretativa nel giocare anche con l’ambiguità dei termini, tanto più ne acquista lo spessore stesso dell’opera. Se è vero infine che la lingua non gioca qui solo da orpello ornamentale, né mina il flusso del dialogo, né è occasione per una meta-analisi delle strategie comunicative, come in molta drammaturgia contemporanea, è perché è la lingua stessa a fare da generatore in questo caso, e Borrelli sembra averlo capito, promettendo di essere lui stesso prima o poi, e appropriatamente, la voce dei suoi testi.
Il formicaio di Marco Andreoli
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Il formicaio è nato nel corso del workshop “Enzimi 2001” organizzato da “Zone Attive” con gli insegnati della “Scuola Holden” di Torino. La sezione “drammaturgia” del workshop si è avvalsa di una coppia di tutor d'eccezione: Ugo Chiti e Francesco Silvestri. Nello specifico la stesura de “Il formicaio” è stata seguita da Silvestri. Successivamente, il compito di mettere in scena i testi elaborati, è stato affidato ad un sestetto di compagnie romane. “Il formicaio” è stato assegnato a Roberto Latini di “Fortebraccio Teatro”. Lo spettacolo di Roberto Latini ha debuttato il 28 luglio 2001 presso "La Palma" a Roma; il 23 settembre, è stato presentato a Campo Lanciani nel corso della manifestazione "Enzimi" e il 29 ha partecipato alla Festa Nazionale di Liberazione a Castel S.Angelo. Latini, oltre ad aver curato la regia dello spettacolo, ha dato anche voce ai tre personaggi (interpretati "fisicamente" da Enzo De Marco, Cristina Latini e Paolo Grimaldi). Delle musiche e dei suoni si è invece occupato Stefano Scatozza degli "Acustimantico". Un secondo allestimento è stato realizzato dalla Compagnia Quattrotralequinte di Savona nella stagione 2004/2005 per la regia di Elio Berti, con Serena Caviglione, Angelo Marenco, Riccardo Martinotti, Renato Procopio.
Di cosa parla
Da quattro anni Fernando Modho, ex dittatore assoluto dello Stato Solare, vive esiliato in un enorme formicaio sotterraneo. La clamorosa rivolta popolare, rovesciando l’impero, ha però travolto nella sua furia anche Frida che, costretta in superficie a sposare il dittatore, deve ora condividerne la condanna. Dopo tanto tempo Frida appare sull’orlo di un precipizio: ossessionata e tormentata dalle migliaia di formiche che abitano la sua prigione, sta piombando in un vuoto disperato. Modho, d’altro canto, cerca incessantemente una via di fuga e governa i piccoli insetti come fossero i soldati del suo esercito Solare. Poi, un giorno qualsiasi, come se niente fosse, irrompe nel formicaio Gogò, ultimo rappresentante di quella popolazione maldese completamente sterminata da Modho. Gogò si presenta, osserva i suoi interlocutori, domanda cosa ci facciano lì sotto; ma non sa che l’uomo che ha di fronte è, in realtà, proprio Fernando Modho, l’Assoluto.
Nota dell'autore:
dall’articolo “Paternità Bordeaux”, pubblicato sul n.1 di Manifatturae
L’occasione per scrivere un nuovo testo cadde giù dal cielo, improvvisamente. Mi venne offerta, infatti, la possibilità di partecipare al workshop di Enzimi, manifestazione con cui da qualche anno il Comune di Roma cerca di promuovere gli artisti under 35. Per me è stata un’esperienza importante e suggestiva. Tanto più perchè mi era stato assegnato il tutoraggio di Francesco Silvestri, autore tra l’altro del meraviglioso Saro e la Rosa. Francesco, in quell’occasione, mi chiese di cominciare a immaginare uno spazio, una scenografia possibile. Mi sembrò una richiesta strana, innaturale. Così obiettai che forse sarebbe stato meglio pensare prima ad una storia per poi passare alla descrizione del suo contesto. Francesco insisteva: prima lo spazio. Mi fidai, naturalmente. E - non so davvero perché - mi saltò in testa quasi subito l’immagine di un enorme formicaio sotterraneo, tanto grande da poterci vivere:
Una stanza. Penombra bruna, terra dappertutto. Chiaroscuri. Le pareti sono irregolari; come fossero quelle di una caverna. Al suolo, piccoli sassi, qualche cespuglio secco, libri sparsi. Sul fondo un arco-porta che conduce alla “camera da letto”. Un trono-poltrona occupa l’angolo di sinistra. E’ bruno, terroso. Di fianco al trono una scrivania con le stesse caratteristiche costitutive. Sul piano della scrivania, due piccole cataste di libri, carte topografiche spiegazzate e un grande registratore a bobine. Anche il tavolo sulla destra sembra fatto di fango essiccato. Fittoni bianchi spuntano dovunque: dal soffitto, dai muri terrosi, dagli angoli, da ogni elemento che ‘arreda’ l’ambiente. Un tubo di acciaio scende perpendicolarmente giù dal soffitto, terminando con una curva rettangolare a mezz’aria, sopra il trono, come fosse il periscopio di un sottomarino. Fissato ad esso, un campanello elettrico dotato di segnalatore luminoso. Sulla parete di fondo, alcuni ritratti incorniciati.
Il Formicaio è nato così, dall’idea di uno spazio potenzialmente agibile. Quando ero piccolo, mia madre comprava per me e mia sorella, dei fascicoletti numerati in cui erano rappresentati scenari vuotissimi di varia natura: lo sbarco in Normandia, la jungla selvaggia, la superficie lunare; e poi c’erano i personaggi: erano impressi su alcuni foglietti trasparenti che, fatti aderire allo scenario e pressati per bene con la punta di una matita, si stampavano micracolosamente sul fascicolo stesso. Così, piano piano, quei mondi si popolavano: leoni, soldati o astronauti diventavano i protagonisti di una privatissima scena. Questi fascicoletti si chiamavano I Trasferelli e, come è ovvio che sia, non sono più in vendita. Scrivere Il Formicaio è stato un po’ come giocare ai “trasferelli”. La trama non fu altro che la conseguenza di un gioco.
Marco Andreoli
La stampa
(...) Una mano dal carattere più sicuro è quella invece di Roberto Latini di Fortebraccio Teatro, alle prese con l'emblematico e felice "Il formicaio", opera di Marco Andreoli dalle molteplici sfaccettature, dove le implicazioni sociali e psicologiche che definiscono i profili dei vari personaggi esplodono per contrasto in uno spazio scenico astratto. L'incontro fra il regista e l'autore è congeniale ad entrambi. Per il regista, poi, crediamo si tratti di una importante verifica creativa (per giunta ben riuscita) al di là dei propri riferimenti, soprattutto per un autore-attore come Latini abituato a plasmare la materia testuale assorbendone gli umori, le ombre, diventandone così il tramite, il medium dei fantasmi e dei deliri di una parola poetica viscerale, spesso ispirata o tratta da Shakespeare. E il disegno tutto plumbeo e infero di Andreoli, che coniuga gli immaginari della pittura di Bosh alle storie fantastiche di Hrabal (con l'evidente ideale filiazione beckettiana del personaggio Gogò), diventa nello spettacolo diretto da Latini un quadro zeppo di figure ectoplasmatiche. Gesti o azioni mimate (quasi una liturgia da teatro orientale con tanto di maschere) accompagnano una sovrastruttura sonora di voci registrate che sottolineano l'asfissiante condizione dei protagonisti. La prima parte si apre con le immagini proiettate del dialogo tra Frida e il consorte Fernando Modho, ex dittatore dello Stato solare costretto a rimanere esiliato sottoterra dopo una sommossa popolare e dove è riuscito a ricreare uno stato autoritario governando gli animali che popolano quella terra. Nella seconda, si rompe il falso rapporto fra i due, anche a causa dell'arrivo inaspettato di Gogò, ultimo rappresentante dei maldesi, precedentemente sterminati dall'efferato dittatore. Uno spettacolo compatto e maturo, abile nel dosare i passaggi aulici del testo col tono "assurdo" della situazione, mentre alla memoria tornano echi della rivoluzione dei garofani e un retrogusto musicale sudamericano.
Paolo Ruffini "Liberazione"
Merging, multinazionali, federazioni, integrazione verticale. Da questi fenomeni di reductio ad unum di sapore neomedievale è nata tutta quella fetta dell'immaginario futuribile che pronostica la società del futuro strettamente controllata in senso verticistico. L'impero e la repubblica di Guerre Stellari, il Ministero dell'informazione di Brazil, la puntata dei Simpson in cui Ned Flanders è il dittatore del mondo futuro. Società in cui la contestazione si polarizza tra l'intimistico e l'esplosivo, in cui la saturazione soffoca forze ancestrali e rabbie millenarie che riemergono deflagranti. A questa galassia di suggestioni, che diventa sempre meno azzardato definire apocalittiche, ha attinto Marco Andreoli per il suo Il formicaio, messo in scena da Fortebraccio Teatro, dramma con formiche, amanti e dittatori in cerca d'Assoluto.
Rivista "Enzimi"
(...) Il racconto di Marco Andreoli intreccia suggestioni molto lontane tra loro, le cine-saghe spaziali di George Lucas e David Linch con stilemi narrativi che ci riportano alle storie di Gabriel Garcia Marquez, in un risultato originalissimo, perfetto, che dà vita ad un universo parallelo con leggi proprie, ma che ci rivela il nostro. Disorienta ed incanta, poi, l'allestimento digitale di Roberto Latini, fatto di voci siderali e irraggiungibili, di presenze estranee e familiari, di sensazioni chirurgicamente asportate dai nostri incubi più intimi ed ancestrali. Con quella sadica ironia che solo nei nostri sogni riusciamo a riservare a noi stessi. Sdoppiamo lo sguardo, assistendo ad un'ineluttabile regola di sopraffazione cosmica che trascende la sfera dell'umano per suggerirci il quid dell'umanità, nun confuciano ren inalterato e rovesciato dai fatti di tutti i mondi esistenti e possibili, laddove il signore non è nè morale nè intelligente, ma va oltre la moralità e l'intelligenza. "Il Maestro disse: 'Non mi affliggo che gli altri non mi riconoscano. Mi affliggo di non riconoscere gli altri'". (Confucio, Dialoghi, I, 16)
Francesco Di Giovanni "www.gigantidellamontagna.it"