Il dramma del mese
Maleeducati di Silvio Stellato
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Maleeducati è stato rappresentato il 29 giugno 2003 nella Rassegna Radio Ciroma a Cosenza; dall'8 al 10 gennaio 2004 nella stagione Spazio Teatro di Reggio Calabria; il 26 febbraio 2004 al Teatro dell'Acquario di Cosenza nella Rassegna IndipendentementeTeatro; al Teatro RossoSimona Università della Calabria il 4 marzo 2004. Debutta al Teatro dell'Orologio di Roma il 29 novembre fino al 5 Dicembre 2004, e sarà riproposto alla città di Cosenza il 24 Novembre 2004 all'Imaga Teatro di Serraspiga.
Produzione: Falegnameria dello Spettacolo
Con Silvio Stellato, Marco Silani, Giuseppe S. Grosso Ciponte. Regia di Giulia Secreti. Video di Giuseppe S. Grosso Ciponte
Di cosa parla
Maleeducati è la storia di due detenuti. Due giovani: di famiglia borghese e dal parlare forbito uno, dei bassifondi di periferia e della mancata istruzione l'altro. Entrambi vivono e crescono in deliranti situazioni familiari accumulando le stesse esperienze di vita. Le marachelle, i piccoli furti ed il riformatorio prima, la vera criminalità e la detenzione nei penitenziari dopo. I due, costretti in una cella e sotto il controllo del tecnico-secondino, muovono e ricordano gli eventi precedenti la carcerazione; eventi che si materializzano attraverso il video proiettato, complemento e completamento della messa in scena. La drammaturgia, di Silvio Stellato, è liberamente ispirata ai racconti di Edward Bunker, autore di romanzi hard-boiler di grande successo negli Stati Uniti e in Europa, dove gli ambienti criminali dei sobborghi di Los Angeles, descritti da Bunker, diventano nel video i luoghi della provincia del sud, mentre lo slang dei neri e dei chicanos si trasforma nel dialetto cosentino, palermitano e napoletano dei quartieri popolari e nell'idioma inconfondibile delle carceri e dei detenuti. Il risultato sono sessanta minuti in cui affiora un mondo visto dal di dentro, un mondo che pochi conoscono e che spesso si affronta attraverso il filtro pregiudiziale dei media. Attraverso lo spettacolo, Maleeducati narra il fallimento dell'istituzione carceraria e il tentativo di attuare uno dei suoi compiti primari: quello della rieducazione del condannato.
Leggi
La stampa:
... Piazzetta Toscano si apre ai "maleeducati", luogo chiamato a rappresentare le proposte artistiche nel campo teatrale e cinematografico … la performance dal profilo sperimentale prende spunto dagli scritti di Edward Bunker, sessantanove anni vissuti pericolosamente - dei quali diciotto vissuti in galera per molteplici reati "la mia non è stata una gioventù bruciata perché io non ho mai avuto una gioventù" ... la messa in scena accompagnata da immagini video risulta travolgente … lo spettacolo concede la possibilità di osservare "de visu" ciò che è in scena ... il video diviene uno strumento per entrare all'interno delle vicende ...
Pierpaolo Pastore
Il quotidiano della Calabria
... una scenografia essenziale, nell'aria la solitudine dei ricordi che, facendo molto rumore nell'anima, appaiono come flashback sullo schermo, una webcam in presa diretta a sottolineare espressioni e mimiche: la contaminazione tra cinema e palcoscenico ... tre giorni positivi [per maleeducati], in cui è emerso interesse per la nuova drammaturgia ... non una critica al sistema carcerario, in cui è implicito che si paghi per aver commesso errori, ma una riflessione sulle condizioni di chi vive dietro le sbarre, una valutazione che, partendo dall'articolo 27 della nostra Costituzione, prevede che la prigione sia l'inizio di un percorso rieducativo ...
g.c.
Il quotidiano della Calabria
... cos'è più dannoso e umiliante, il controllo o i sedativi? Ce lo chiediamo mentre osserviamo il carceriere di "maleeducati" ... armato di una webcam, glaciale e suggestiva nei toni celesti restituiti fuori sincrono ... la trovata di mescolare video e teatro è scelta stilistica e tributo all'opera e alla vita del criminale e scrittore statunitense Edward Bunker ... l'occhio orwelliano ... il decadimento dei personaggi ... la decostruzione del palco ... indovinato l'assortimento degli attori e autori di una bella performance ...
Eugenio Furia
Il quotidiano della Calabria
Dal video per lo spettacolo, Giuseppe S. Grosso Ciponte ha realizzato una riduzione di 2 min. per la circuitazione nei festival dedicati ai cortometraggi.
Il video è stato selezionato al Cinecittà Internet Film Festival 2003, ed è stata tra le opere scelte da
"ULTRACORTI FILM FESTIVAL" per far parte del palinsesto Wind per telefonia mobile.
Per altre informazioni sullo spettacolo e per vedere il video:
http://www.promaction.com/maleeducati/
L'alba del terzo millennio di Pietro De Silva
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L'alba del terzo millennio è stato rappresentato la prima volta nel 1994 al Teatro Argot e successivamente al Teatro dell'Orologio in Roma con la regia dello stesso autore che ha interpretato anche il ruolo del Vinaio, mentre Paolo Fosso ha interpretato il Maestro. La compagnia del teatro Abeliano di Bari rappresenta lo spettacolo da dieci anni con grande successo.
Di cosa parla
Balzac sosteneva:"Nessun uomo viene abbandonato senza ragione." E' un assioma scritto in fondo al cuore di ogni uomo... di qui il furore degli abbandonati...? Immaginate dunque due uomini abbandonati e dimenticati in croce durante una sacra rappresentazione in cima al Monte Soratte. I due disgraziati, un vinaio ed un maestro elementare, vengono issati su due croci nel ruolo dei ladroni, il caso vuole che alla televisione ci sia un'importantissima partita che tiene incollati al video tutti gli altri partecipanti. I due di fronte all'atroce consapevolezza dell'abbandono sono dapprima pervasi da un moto di stupore, ma dopo poco prevale la rabbia e l'incredulità mista ad un senso di panico sempre più incombente. La solitudine li attanaglia e la speranza di essere salvati col passar delle ore si fa sempre più tenue... Nulla accomuna i due individui, sono distanti in tutto. Il maestro di cultura laica, malinconico e attonito di fronte agli eventi, non riesce se non tardivamente a tessere un rapporto con il vinaio, personaggio greve, schietto e ruvido e soprattutto logorroico e un tantinello incosciente. Due mondi contrapposti che in virtù di una forzata convivenza campestre dovranno in qualche modo comunicare ed accostarsi per non cedere alla disperazione. Spettacolo di tessitura tragicomica, parte da un assunto al limite del surreale e si trasforma nel tragico epilogo in una apologo sulla vacuità dell'esistenza. Azzeramento della speranza? Ineluttabilità degli eventi? Questo testo apparentemente non lascia spiragli e prospettive ai due malcapitati. Il proposito dell'autore è di lasciar sedimentare nello spettatore il vissuto dei due individui che in definitiva sotto diverse sfaccettature rappresenta il dolore e le passioni che pervadono tutti noi... nessuno escluso. Quest'involucro di sofferenza e partecipazione emotiva in fondo ci accompagna
per tutta l'esistenza. Ed è nella disperazione e nel tunnel che un minimo spiraglio di luce anche distante si fa salvezza sia per il singolo che per l'umanità intera.
Mari di Tino Caspanello
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Mari ha vinto il Premio speciale della Giuria Bignami Quondamatteo del Riccione Teatro 2003. Ha debuttato a Pagliara il 18 dicembre 2004 ed è stato rappresentato al Teatro Petrella di Longiano nell'ambito del Festival Santarcangelo dei Teatri nel luglio 2004 dalla Compagnia Pubblico Incanto. Con Cinzia Muscolino e Tino Caspanello, costumi Cinzia Muscolino, elaborazione del suono Giovanni Renzo, assistente alla regia Andrea Trimarchi, scene e regia di Tino Caspanello.
Il 19 settembre 2004, al Teatro Arsenale di Milano, lo spettacolo verrà presentato nell'ambito del Festival Tramedautore organizzato da Outis.
Dal verbale della Giuria della XLVII edizione del Premio Riccione per il Teatro
Delizioso duetto musicale in dialetto messinese, dedicato dall’autore a coloro che “amano senza parole”, mentre vede prolungarsi un ripetuto breve addio, sulle rive del mare, tra un marito ansioso di restare solo a pescare e la moglie che continua a rinviare il rientro in cucina, riattaccando il discorso. Anche qui vibra una voce spasmodicamente interessata al linguaggio, che tende la rete invisibile di un sortilegio amoroso a imprigionare coi ritmi della sua partitura il movimento, legando le due figurine struggenti nel notturno marino.
Recensione da "Il giornale del festival"
da www.santarcangelofestival.com
Convince "Mari" della Compagnia Pubblico Incanto
Frammenti di un discorso amoroso in dialetto
di Annalisa Sacchi
L’uomo è di schiena, seduto su una cassetta di legno. Un secchio e una lampada di fianco. Rumore di risacca. L’uomo si volta, trattiene un filo di nylon teso per pescare, piantato nella platea. Il confine tra il pelago e la riva è segnato dalla linea del proscenio. La donna emerge dal buio dello sfondo, è notte e vuole riportare il marito a casa, vuole che ceni con lei. Sono Tino Caspanello e Cinzia Muscolino, della Compagnia Teatrale Pubblico Incanto, in scena fino a stasera al teatro Petrella di Longiano con Mari. Lui è ruvido, vuole rimanere solo. Le parole sono spezzate da lunghi silenzi, che nel testo di Caspanello, vincitore del Premio Riccione della giuria, erano indicate dall’autore in forma di vuoti tra parentesi. Luoghi di sottrazione linguistica, in scena sono apnee che restituiscono l’essenziale di una forma di emarginazione dall’altro. La parola sembra zavorrare i personaggi, il suo punto di caduta è sempre esterno alla comprensione dell’altro, congela ogni slancio. Caspanello dichiara di voler “far passare le cose in cui si crede senza nominarle, perché nell’atto di nominarle vengono meno”. La trama, dunque, è ricamata principalmente sulla filiera prossemica, gesti abortiti per paura o pudore, che sembrano tradurre in scena un’eco sghemba e delicata di certi scambi tra Keaton e la Masina. Il confine del corpo dell’altro è solo lambito, le mani si fermano un attimo prima di incontrarlo. Due esistenze piccole piccole, proiettate sul mistero di un mare notturno che non riescono a vedere, e che per questo diventa un pretesto quando bisogna trovare qualcosa di cui parlare. L’acqua si fa sinapsi capace di mettere in relazione i corpi, quando lui invita la donna a esplorarne la superficie. C’è un gesto di intimità quasi erotica in queste mani che guidano altre mani alla scoperta, e lei che si schermisce ritraendosi imbarazzata. La partitura lirica è scandita dall’ “allora io vagghiu” con cui la moglie fa per accomiatarsi, e dai pretesti che continua a rincorrere pur di rimanere accanto all’uomo, Sherazade afasica le cui storie non interessano più il sultano. Nell’uomo si manifesta più chiara la scissura tra un’esistenza intima, un canto interiore appena sussurrato, e una figura come intagliata nel legno. Il progredire dei rapporti tra i due coincide allora con le reazioni di lui, col suo progressivo stemperare l’insofferenza verso la compagna, giungendo a trattenerla nei momenti finali. Anche la condivisione dello spazio è sofferta, lui rincasa sempre che lei già dorme, dividono il letto come estranei. È lei a incrinare per prima l’artrosi del rapporto, gli confida che, a volte, lo aspetta sveglia, lo ho ascoltato agitarsi nel sonno, persino parlare. E in questo parlare, una volta, invocare distintamente il nome di lei. Quando lui dorme, lei riesce a toccarlo, quando lei non lo vede, lui la ascolta cantare. Devono incontrarsi fuori dal discorso, fuori da una quotidianità meccanica che li fa estranei. Basta una trasgressione, e di nuovo le mani si intrecciano a pelo d’acqua.
Bambino di guerra di Massimo Nicoli
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Bambino di guerra non è mai stato rappresentato ma ha ricevuto alcuni riconoscimenti. Nel 1995 ha ottenuto una segnalazione di merito nell'ambito del premio nazionale "Giacomo Bardesono". Nel 1997 ha superato la selezione italiana per la partecipazione a uno workshop tenutosi in Olanda dal titolo: "Ouch, theatre meets social reality in Europe" promosso dall'Unione Europea e organizzato dall' European network of art organizations for children and young people (EU NET ART). In quell’ambito ad Amsterdam fu presentata anche una scena del lavoro teatrale con la regia di Marco Baliani. Al termine della manifestazione “Segnali”, il testo fu pubblicato su Sipario del maggio 1995.
Una nota critica
di Sergio De Sandro Salvati
Molto intelligente l’idea dell’autore di non collegarsi ad alcun elemento spazio-temporale in modo da rendere la ‘sua’ una storia universale, realistica, con tutti i risvolti emotivi al posto giusto, forse un po’ scontati, ma mai banali. I racconti di guerra fanno parte, ormai, di una certa routine: entrano quotidianamente nelle nostre case attraverso i media con la semplicità disincantata e accattivante degli stereotipi, impossibili da rielaborare perché essi stessi sintesi, simboli, maniera, oggetti da prendere e consumare con interesse sempre più distaccato. Non è difficile riscontrare in questo una sottile insidia per la nostra coscienza: anche se in modo non intenzionale le continue incursioni di immagini e commenti raccapriccianti ci rendono paradossalmente sempre più insensibili ai dolorosi drammi della guerra che tutti i giorni si vivono concretamente nel mondo. Ma qualcosa può invertire questa tendenza: la rappresentazione teatrale; una sorta di scorciatoia per arrivare prima agli ‘obiettivi’ più sensibili dell’uomo. Come operatore teatrale ritengo che “Bambino di guerra” di Massimo Nicoli sia valido proprio per questo motivo; perché ripropone finalmente la magica condizione di poter essere spettatori attivi (non televisivi), offrendo la possibilità di rappresentarsi direttamente nella “verità” del teatro e di esaltare i caratteri più genuini della propria sfera emotiva. Nella sua stesura drammatica e relativa lettura teatrale il testo risulta molto scorrevole, ricco di scambi, attese, sorprese e, anche se apparentemente rigido nella successione e articolazione delle scene, riserva ampi spazi dove la fantasia del regista può liberarsi per favorire, se occorre, occasioni di esaltante spettacolo.
Presentazione di Giuseppe Manfridi
Dal numero 556 di " Sipario" maggio 1995
Testo breve ma articolato e composto con notevole abilità drammaturgica. Durante un ipotetico conflitto che molto ricorda quelli a noi limitrofi e con cui conviviamo, ormai assuefatti da tempo, il piccolo Stefan e sua madre Ruth danno asilo in uno sgabuzzino della loro piccola casa a Mitch, una sorta di partigiano schierato, all’apparenza, dalla parte dei giusti. In realtà, che Mitch, per dirla in modo infantile, sia uno dei buoni o no poco importa. ricordo quello splendido racconto che è il silenzio del mare di Vercors in cui un gerarca nazista, durante l’occupazione tedesca in Francia, stabilisce un rapporto di straordinaria comunicazione con la coppia di padre e figlia costretta ad ospitarlo e che oppone, all’ansia di conoscenza del nemico, un fiero ma permeabilissimo mutismo. Nulla di più alto della passione di quello straniero in pena per una terra non sua ma profondamente venerata. Così Mitch, poeta e mago col dono di un’affabulazione che incanta, diventerà il grande compagno di giochi di Stefan a onta delle angosce di Ruth, creatura vulnerabile e forte, dolcissima nel suo essere scissa tra le preoccupazioni materne e il proprio senso di umanità. Ma vorrei lasciarvi alla lettura di questo testo con l’incantata domanda che nella commedia di Massimo Nicoli il piccolo Stefan rivolge a sua madre: - Mamma, anche gli alberi fanno la guerra? -”.
Presentazione dell'autore
Il testo è nato e si è sviluppato all’interno di un laboratorio di drammaturgia, organizzato nel 1995 dalla Regione Lombardia, nell’ambito della manifestazione “Segnali. Le proposte 95/96 del Teatro Ragazzi Lombardo”. Il laboratorio fu condotto con grande abilità e competenza da Giuseppe Manfridi. La prima sollecitazione fu quella di proporci un tema da cui partire: “Sogni da un campo di battaglia”. Questa frase suscitò in me un’immagine che fu germe e punto di partenza di tutto il lavoro successivo. Immaginai un bambino che stava giocando con una barchetta in una pozzanghera. Il gioco veniva interrotto perché il bambino era attratto dal rumore sempre più incombente di soldati in marcia. Una donna, la mamma del bambino, usciva di casa allarmata, abbrancava il bambino e lo trascinava via. Successivamente i militari passavano e nella loro marcia travolgevano la pozzanghera e la barchetta di carta. Dopo aver pensato questa immagine (più cinematografica che teatrale) cominciai a considerare il motivo e quali significati racchiudeva. Scoprii così che c’era già tutto il senso del lavoro. Un bambino strappato al suo gioco da un adulto spaventato e preoccupato. La barchetta distrutta. Il bambino privato del suo diritto a giocare e costretto a rimanere chiuso in casa. Quello che volevo raccontare era proprio questo: ciò che la guerra provoca nel bambino. Non necessariamente in quei bambini che vengono sempre più tragicamente coinvolti da esplosioni e sparatorie, per i quali ci si strappa le vesti e poi, altrettanto rapidamente, ci si dimentica, ma in tutti i bambini che si trovano a subire condizioni e condizionamenti dovuti alla guerra. La vicenda, che comprende anche uno sviluppo avventuroso, ruota principalmente attorno alla figura di Stefan, il bambino, ed è caratterizzata dalle sue frequenti domande. A rispondere a queste domande sono Ruth la madre, comprensibilmente preoccupata e ansiosa , e Mitch, un misterioso rifugiato nascosto nella casa di Stefan, capace di offrire al bambino nutrimento alla sua fantasia e alla necessità di gioco. L’ultimo personaggio è rappresentato da Ierivna, una donna pettegola e impicciona, forse addirittura un’informatrice che rappresenta una minaccia continua per la piccola famiglia. In quel periodo era in corso il conflitto nella ex Jugoslavia ma il testo non vuole avere una collocazione precisa nello spazio, anche la scelta dei nomi è fatta seguendo questo criterio. Vuole rappresentare idealmente tutti i conflitti e i loro effetti sui bambini. Non credevo che il testo avrebbe continuato a restare di attualità così a lungo.
Massimo Nicoli