Il dramma del mese
Tempi maturi di Allegra de Mandato
- Scritto da Damiano Pignedoli
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«Al contrario il presente dell’attore è il più istantaneo, il più stretto. L’attore rappresenta, ma ciò che egli rappresenta è sempre ancora futuro e già passato, mentre la sua rappresentazione è impassibile e si divide, si sdoppia, senza rompersi, senza agire, né patire. Il paradosso del commediante allora si fonda sull’istante in cui deve contemporaneamente anticipare, ritardare, sperare e ricordare».
Gilles Deleuze
Un monologo che racconta una vita. Realtà e finzione che s’intersecano. Il mondo dello sport e la nostra storia contemporanea. La paura di non farcela e le scorciatoie. Il bisogno di esistere in una società che si dimentica tutto quello che fagocita.
Un’ora di corsa ciclistica, in cui un attore recita pedalando in bilico sui dei rulli, come un acrobata circense alla ricerca dell’equilibrio. Un uomo che racconta non solo il proprio io, ma certe persone che ha incontrato. Un piano inclinato, sospeso tra il flusso di coscienza e il rivivere sulla propria pelle lutti e sconfitte, mentre preme la voglia di riscatto e la paura di non sopravvivere a se stessi.
Ho fatto un lavoro a stretto contatto con Emanuele Arrigazzi, che è attore e ciclista, per capire la difficoltà di mantenersi in bilico sui rulli usati dagli atleti per il riscaldamento pre-gara e così trasmettere nel testo quel senso di costante precarietà.
Una storia che, scrivendola, è diventata anche un mio autoritratto obliquo dove quella del protagonista si scinde, come mai mi era capitato prima, nella mia di autrice e in quella dei personaggi che man mano s’incontrano. Egli è perciò al contempo protagonista e testimone, avversario e gregario delle vicende che lo sfiorano.
Lo sport è un’allegoria mostrata in movimento, una storia che accompagna un’esistenza emblematica: non tanto in sé, ma come presenza incessante del dubbio del fallimento che può schiacciare chi lo vive, insieme a un terrore del giudizio altrui tale da paralizzare.
La mancanza di talento, la sindrome dell’impostore, la paura ossessiva di annoiare: davanti al dubbio lacerante di chi racconta tutto ciò, ecco che la drammaturgia corre tra il filo dei pedali e in mezzo a stanchezza ed euforia; generando una sintesi tra finzione e realtà, bisogni e ferite, animata da un’insaziabile voglia di vincere al fine di sentirsi – o almeno potere – Esistere.
Ho lavorato sul linguaggio come richiamo di pensieri e immagini, manipolandolo tra il quotidiano e il lirico: creando un’epica del quotidiano, quindi, cercando di suscitare in chi ascolta l’idea di essere testimone di quello che succede dentro la testa del protagonista, il quale è in continuo movimento come il suo corpo.
Le parole inseguono il sudore, la stanchezza e la fatica, ma volano più alte in una storia che cerca di essere umana troppo umana.
Allegra de Mandato
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La messinscena del testo TEMPI MATURI ha debuttato il 15 marzo 2017 al Teatro Comunale di Alessandria, per l’interpretazione di Emanuele Arrigazzi e con le musiche curate da Matteo Catalano.
«Vivere in bicicletta, celermente, mentre tre rulli girano, con l’obiettivo di far vedere come mantenere l’equilibrio in scena, nello sport e nella vita: il nostro eroe per una sera e per un’ora è l’intenso (e allenato) Emanuele Arrigazzi. Il tutto senza sosta, senza la possibilità di fermarsi. Pena: la caduta. A teatro e nel quotidiano, in cui senza sosta si è costretti alla scelta tra perdere con le proprie forze o vincere con l’inganno». (Federico Serretta, ‘Pedalare sul palco per cercare risposte’, in “Teatro.it”)
Allegra de Mandato (nella foto di Lorenzo Burlando) è nata a Modena nel 1982. Drammaturga e sceneggiatrice, si laurea in Lettere Moderne all’Università di Bologna e, nel biennio 2006-07, frequenta il Master della Regione Emilia Romagna in Drammaturgia per le performings arts “LUS”, diretto da Marco Muller. Nel 2007 si trasferisce a Roma, dove è tra i selezionati del Corso di Alta Formazione per Sceneggiatori “Rai Script”. Scrive spettacoli teatrali, tuttora in distribuzione, come appunto TEMPI MATURI, PUÒ UNA BICICLETTA VOLARE? (produzione 2015-16 della Casa degli alfieri) e STOCCOLMA; mentre BUONI PROPOSITI debutterà in prima nazionale al 39° festival Asti Teatro (23 giugno – 2 luglio 2017) con la produzione sempre della Casa degli alfieri accanto a Manifattura K. Oltre a essere dramaturg (si ricorda il lavoro per lo spettacolo STANLIO E OLLIO dal testo di Juan Mayorga, regia di Paolo Giorgio e prodotto da Band à Part nel 2012), è anche sceneggiatrice di documentari e lungometraggi (IL MARE CHE NON MI ASPETTAVO, in programmazione su Sky) e fa parte del gruppo di drammaturghi “CRISI”, coordinato da Fausto Paravidino, e di quello del progetto “Menzogna” di Antonio Latella. Collabora stabilmente con la compagnia della Casa degli alfieri di Asti e – con Emanuele Arrigazzi – dirige il festival Il borgo delle storie di Garbagna in provincia di Alessandria (ilborgodellestorieblog.wordpress.com).
Foto Lorenzo Burlando
Tropicana di Irene Lamponi
- Scritto da Damiano Pignedoli
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«A volte le persone diventano cattive, soprattutto quelle che ci amano di più». Quella di TROPICANA è una storia familiare vista attraverso gli occhi di una ragazza che, suo malgrado, deve fare l’adulta per la mancanza di figure di riferimento credibili. Gli adulti sono esilaranti nella loro immaturità, nella loro mancanza di prospettive, nei legami dolorosi che non vogliono sciogliere, nell’immobilità compulsiva, nei tentativi continui di risolvere problemi senza soluzione. La lista è lunghissima ma, come detto, esilarante perché vista dagli occhi di una ragazza che invece sogna il proprio futuro: lo sogna sconfinato e vitale com’è giusto che sia alla sua età.
La casa materna diventa una specie di nido-prigione, da cui sembra che la fuga sia l’unica soluzione praticabile. Nonostante i personaggi si facciano del male, perché non capiscono cos’è che li fa soffrire, contemporaneamente fanno di tutto per risolvere i loro problemi in uno slancio vitale fuori misura. Questa lotta tra il dolore e la voglia di vivere crea dei cortocircuiti interessanti. La pièce parla di esseri umani che vogliono vivere, anche se non lo sanno.
La canzone (famosa hit del 1983 del Gruppo Italiano, da cui il titolo della commedia), che Nina canta esercitandosi con la chitarra nella sua cameretta, sembra il preludio dell’inevitabile e anelato abbandono di quella situazione senza futuro, dove tutto fa presagire che il vulcano esploderà. Invece il dramma ci propone un’altra possibilità, a dire il vero più sorprendente: affrontare il nemico, rimediare al malessere attraverso la cura. La cura sta dentro, lì dentro la casa, dentro i rapporti. Pur faticosamente, la ragazza riesce a liberarsi senza fuggire o abbandonare, attuando un processo che non genera rimorsi bensì prospettive.
TROPICANA è un antidoto alla diffidenza intergenerazionale, un testo che parla ai giovani e agli adulti, senza retorica ma con estrema sincerità e chiarezza. Una storia in cui si ride molto e insieme si piange.
Una creazione drammaturgica, inoltre, nata all’interno di “CRISI”: un laboratorio permanente di drammaturgia, condotto da Fausto Paravidino per il Teatro Valle Occupato di Roma che ha fortemente sostenuto questo progetto di formazione, permettendo di immaginare nuovi modelli creativi.
Irene Lamponi
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L’opera che leggerete è diventata anche uno spettacolo, attualmente in tournée, andato in scena per la prima volta il 12 ottobre 2016 al Teatro della Tosse di Genova. Prodotto dalla medesima Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse (teatrodellatosse.it), con la regia di Andrea Collavino, le scene di Ruben Esposito e i costumi di Daniela De Blasio, è interpretato dall’autrice stessa e da Elena Callegari, Cristina Cavalli e Marco Rizzo. «Una figlia, una povera madre, la vicina che bestemmia, il fidanzato carino […]. Un lavoro sincero e spigliato, vibrante di emozioni» (Laura Santini, in “Hystrio”, n. 1, 2017, p. 70).
Irene Lamponi. Nata a Venezia nel 1986, laureata in Lettere, si diploma in Recitazione nel 2009 alla scuola del Teatro a l’Avogaria della sua città. Lavora con il Teatro Stabile del Veneto e continua a formarsi e a lavorare con registi come Emma Dante, Jurij Ferrini, Fausto Paravidino, Claudio Tolcachir, Andrea Lanza e Giorgio Sangati. Dal 2010 inizia anche a creare progetti teatrali indipendenti, entrando nella compagnia AltroQuando di Genova e dedicandosi alla drammaturgia accanto al lavoro d’attrice. Scrive perciò quattro testi: LA PACE DENUNCIATA nel 2010, con lo scrittore olandese Ilja Leonard Pfeijffer; LABBRA nel 2011; IL CANTO DEI CORVI e, nel 2014, appunto TROPICANA. Oltre che in Italia, i suoi spettacoli sono stati rappresentati in Belgio, Olanda e Cina; mentre nel 2012 è entrata a far parte del gruppo di scrittura, guidato da Fausto Paravidino, al Teatro Valle Occupato di Roma. Ha uno spazio web, infine, al link “irenelamponi.blogspot.it”.
Stava la madre di Angela Demattè
- Scritto da Damiano Pignedoli
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Quando Sandro Mabellini mi propose di lavorare sullo STABAT MATER di Jacopone da Todi – per il festival I Teatri del Sacro 2013 di Lucca – non sapevo affatto dove saremmo arrivati.
L’aspetto musicale era quello che interessava maggiormente Sandro. Sapeva già chi coinvolgere: Giulia Zeetti, straordinaria cantante e attrice; e Antonia Gozzi, bravissima musicista, colta e ironica. La terza sul palco avrei dovuto essere io, come attrice e cantante. Sandro è un regista che agisce libero, guidato da forti suggestioni e pochi limiti. Dunque, io cominciai a indagare la materia liberamente.
La cosa che mi colpì nel testo di Iacopone fu la sua implorazione alla Madonna: egli chiede a Maria di farlo partecipare al suo dolore e al dolore di Cristo. Questa cosa la avvertii come scandalosa, assolutamente lontana dal sentire di oggi. Durante le mie ricerche decisi di chiamare Ambrogio Sparagna, prezioso musicista ed etnomusicologo, oltre che amico, che avevo conosciuto qualche tempo prima. Mi raccontò della curiosità di uomini e donne giovanissimi per il repertorio popolare, come se questi ragazzi avessero bisogno di ritrovare una matrice, una storia, un’origine.
In quei giorni entrai in una chiesa. Stranamente alcuni gruppi folkloristici erano presenti, con i loro costumi sgargianti. Evidentemente celebravano qualche anniversario. Pochissimi di loro erano interessati alla messa. Pensai a quanti gruppi, confraternite, cori, associazioni di matrice cattolica dovevano esistere in Italia ma quanto la loro origine religiosa fosse spesso smarrita. Ora non so esattamente cosa fece scattare quell’intuizione che trasformò in forma scenica e drammaturgica l’indagine che volevo fare. Sicuramente una certa necessità di ironia. Ma credo che il cortocircuito creato da segni quotidiani e contemporanei, accostati a simboli sacri e antichi, abbia acceso la miccia. Il fatto che il dolore oggi sia un nuovo tabù, per esempio, si tradusse nella mancanza del volto di Cristo crocifisso in scena. Di esso si vedono solo i piedi, come a voler censurare tutto il resto. Ma anche a volere impedire la possibilità di compartecipare quel dolore.
Due donne, scelte tra le tante di un coro popolare del centro Italia, sono chiamate a cantare qualche canzone in un improbabile set di un film americano. Esse cercano, inconsapevolmente, un’identità profonda. Ho lasciato che i personaggi fossero guidati dai cortocircuiti di cui parlavo prima. È un micromondo fatto di Marie, croci, facebook, dolore, amore, verginità, rosari fosforescenti… Sembra che non si possa trovare una profondità sensata persi come siamo nell’aridità dei simboli religiosi e nella vacuità degli amori da social network. Ma questo è ciò che pensano gli americani, i quali non conoscono dove sprofondano le radici dell’Italia e non conoscono quanto le viscere delle donne possano compromettersi. L’epilogo è una domanda di senso che, giustamente, Sandro ha voluto rappresentare come una voce sola, un coro disperante che nella musica trova una possibilità di consolazione.
Come ci ha raccontato Ambrogio, in quella settimana di ricerca, ospiti a casa sua, mentre ci cucinava il pesce: la condivisione del dolore era l’unica salvezza per il popolo e la musica si fa strumento di questa possibilità.
Dunque, credo, mancherà alla lettura la musica di Ambrogio, la presenza viva e musicale di Antonia, il canto di Giulia e mio. Spero sia comunque bello leggerlo e che qualche cortocircuito avvenga comunque.
Angela Dematté
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Prodotto dal Beat 72 di Roma, lo spettacolo dal dramma STAVA LA MADRE è andato in scena per la prima volta a Lucca il 13 giugno 2013, grazie alla vittoria del bando dei Teatri del Sacro. Diretto da Sandro Mabellini, responsabile pure delle scene, è interpretato da Giulia Zeetti nel ruolo di Maddalena e Angela Dematté in quello di Maria. Con loro, sul palco, Antonia Gozzi che ha curato le musiche eseguendole anche dal vivo. Le canzoni presenti nella pièce sono tratte dal repertorio popolare, di cui tre (E ME NE VOGLIO ANDARE, MADRE MARIA, LA PRIMA VOLTA CHE M’INNAMORAI) sono state scritte e donate da Ambrogio Sparagna.
«Alto e basso, rozzo e sublime, colto e consumistico. Lo SABAT MATER di Jacopone da Todi attraversa i telefoni cellulari delle protagoniste, le canzoni popolari si intrecciano a sonorità sintetiche live, i piedi di un Cristo crocifisso incombono sulle attrici che passano senza posa, con magistrali micro variazioni del corpo-voce, dall’esilarante al tragico». (Michele Pascarella da “Hystrio”, n. 3, 2014, p. 77)
Angela Dematté. Nata a Trento nel 1980, laureata in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, nella stessa città si diploma all'Accademia dei Filodrammatici nel 2005. Quattro anni dopo inizia la sua attività di drammaturga e con il suo primo testo, AVEVO UN BEL PALLONE ROSSO, vince il 50ˆ Premio Riccione e il Premio Golden Graal Astro Nascente per il Teatro. Ne scaturisce così, nel 2010, la corrispondente messinscena di Carmelo Rifici, con il quale inizia un rapporto di fertile collaborazione che dà alla luce altri spettacoli: L’OFFICINA – STORIA DI UNA FAMIGLIA nel 2013, prodotto come il precedente dal Teatro Stabile di Bolzano; il progetto CHI RESTA, scritto con Renato Gabrielli e Roberto Cavosi (produzione Proxima Res, 2013); CLITENNESTRA O LA MORTE DELLA TRAGEDIA, per Elisabetta Pozzi e prodotto nel 2015 dalla Fondazione Teatro Due di Parma; IL COMPROMESSO, creato di recente per gli allievi dell’Accademia dei Filodrammatici. Con lo stesso regista è inoltre al lavoro sul progetto IFIGENIA, LIBERATA per il LAC di Lugano e il Piccolo Teatro di Milano. Altri testi messi in scena sono: STRAGIUDAMENTO e LUNGH ’ME LA FABRICA DEL DOMM (regie di Andrea Chiodi del 2011 e del 2015); NEL VENTRE DELLA GUERRA, per Massimo Popolizio e la produzione di Pergine Spettacolo Aperto (2014); GUIDA ESTREMA DI PUERICULTURA_14_15, scritto con Francesca Sangalli (finalista al Premio Dante Cappelletti e diretto da Renato Sarti per il Teatro della Cooperativa nel 2015). Infine, oltre ad aver vinto il Premio Scenario 2015 con il progetto MAD IN EUROPE, il suo lavoro è stato pubblicato in Italia da Editoria & Spettacolo e in Francia da Les Solitaires Intempestifs; mentre J’AVAIS UN BEAUX BALLON ROUGE è andato in scena per un quadriennio in Francia, Svizzera, Belgio e Lussemburgo, diretto da Michel Didym e premiato poi col Palmarès Coup de Coeur per gli interpreti Richard e Romane Bohringer. Diversamente, come attrice, lavora in teatro con Mimmo Cuticchio, Bano Ferrari, Vittorio Possenti, Peter Clough, Bruno Fornasari, Walter Pagliaro, Pietro Carriglio; e al cinema con Toni Trupia, Giovanni Calamari, Matteo Ricca, Daniela Persico, Sergio Fabio Ferrari.
E avrà i tuoi occhi di Michelangelo Bellani
- Scritto da Damiano Pignedoli
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La drammaturgia che leggerete nasce dalla suggestione mai del tutto manifesta di una storia mitica: quella biblica di Abramo e Isacco. Una storia odiosa. Come può, infatti, un padre accettare di essere l’assassino del proprio figlio?
Eppure secondo Kierkegaard quest’atto – scandalo della ragione – sarebbe l’atto di fede più sublime e perfetto proprio perché, contrariamente a un eroe tragico, la scelta di Abramo è priva di qualsiasi piedistallo etico. La sua è, perciò, una fede assoluta e indipendente.
In questa scrittura drammatica i personaggi Abramo, Isacco e Sara sono contemporanei. Sono realistici ma non reali. Le situazioni narrate, invece, sono reali ma non realistiche: nel senso che perseguono l’autenticità di un sentire e non la verosimiglianza di una circostanza.
Abramo è un professore universitario alla fine della sua carriera, un intellettuale engagé di una certa fama che ha difeso gli ideali della lotta al potere e ha cercato anche di trasferirli nella sua vita personale. Nel nido che ha costruito con amore per sua moglie e suo figlio irrompe, però, una realtà del tutto fuori controllo.
Isacco, nato alla fine degli anni Settanta, è diventato un eroinomane che vive per strada e nei suoi deliri recita Bertolt Brecht. È stato influenzato dall’educazione e dai numerosi testi scritti dal padre, decide però di spingere il suo pensiero fino agli esiti più estremi dell’autodistruzione.
Sara è una madre/moglie che non ha amato il marito tanto quanto è stata amata o, forse, non ha amato con quella pressione narcisistica che spinge a riconoscere i propri sentimenti senz’ombra di dubbio. Anche per lei l’autenticità è un’esperienza di soffocamento, così come l’amore per suo figlio: un imperativo morale che la conduce, in un estremo atto d’amore, a essere l’artefice della sua condanna.
Lo scontro generazionale è il tema. Ma non uno scontro che conduce all’affermazione di una generazione su un’altra. Qui lo scontro generazionale si consuma al tramonto di un’epoca in cui tutti, anche se in modo diverso, sembrano sconfitti allo stesso modo.
Lo scontro emblematico fra il padre Abramo e il figlio Isacco è uno scontro di due fallimenti: quello di chi ha “creduto” – nell’evoluzione, nel miglioramento delle condizioni di vita – e quello di chi non è riuscito a credere in nulla, causa la sensazione irriducibile di credere in qualcosa di sbagliato. Da questo punto di vista, la famiglia tanto quanto la strada rivelano la medesima indifferenza.
Infine, una riflessione generale sul complesso della mia scrittura teatrale.
Nata all’interno di un percorso di compagnia piuttosto autoctono, e quindi molto legata alle presenze umane con cui ho lavorato in questi anni, è stata inevitabilmente influenzata da una formazione filosofica. E la compagnia che ho fondato, La società dello spettacolo (www.lasocietadellospettacolo.org), all’inizio ha orientato la sua ricerca verso la riscrittura scenica di opere filosofiche e sociologiche a partire proprio dal famoso saggio di Guy Debord da cui prende il nome, componendo quindi una trilogia dedicata alla filosofia francese contemporanea, ispirata a figure quali lo stesso Debord, Jean Baudrillard e Maurice Merleau-Ponty.
Ero, e sono convito, che la parola filosofica e la parola teatrale abbiano una stessa sotterranea vocazione di offrirsi come parola pubblica e che dunque non sia un’operazione impropria quella di mettere in scena la Filosofia. Ma i miei esperimenti hanno soprattutto risentito di un’altra esigenza eretica: quella cioè di far emergere, del pensiero, non tanto il rigore logico/argomentativo quanto la sua eleganza. Ho tentato quindi di trarre dalla parola filosofica una parola di poesia.
Attualmente, com’è naturale, questa ricerca sta evolvendo verso nuovi ambiti ma di cui non so ancora distinguere i tratti.
Michelangelo Bellani
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Michelangelo Bellani. La sua visione artistica è influenzata, fin dall'infanzia, dal contatto con il regista Michelangelo Antonioni del quale il padre Enrico è aiuto regista; e da subito comincia un rapporto infedele con la scrittura, giocando con una macchina da scrivere modello Olivetti lettera 92. Si laurea in Filosofia all'Università di Perugia con una tesi su Pasolini e Debord dal titolo ESTETICA DEL TEMPO REALE. Nel 1997 fonda – con Marianna Masciolini e un manipolo di amici – la compagnia giovanile Olt, residente presso il Teatro Subasio di Spello (Perugia), di cui cura per un biennio la programmazione. Nel 2000, per la messa in scena della sacra rappresentazione LA SCALA DELLA BUONA NOVELLA di Nilo Negroni, collabora con il “Premio Oscar” Carlo Rambaldi. Ha lavorato come aiuto regista, attore e regista in documentari, cortometraggi e film. Ha pubblicato i saggi L'ESTETICA DELLA PRESENZA e LA CARNE DELL’IO O LA SCRITTURA DELL’INVISIBILE in “Davar”, annuario filosofico a cura di Anna Giannatiempo Quinzio, edito a Reggio Emilia da Diabasis nel 2008. Con C. L. Grugher e Marianna Masciolini fonda e dirige, dal 2007, La società dello spettacolo: gruppo umbro di ricerca teatrale (di cui fa parte dal 2012 anche Caroline Baglioni) che ha all’attivo diverse produzioni d’arte, cinema e teatro, gratificate di numerosi riconoscimenti in festival nazionali e internazionali (Premio Independents ArtVerona 2014 per PRESENTE, Premio Umbria in celluloide PerSo Film Festival 2015 per SÒCCANTARE, Premio Scenario per Ustica 2015 e In-Box Blu 2016 per GIANNI). IO SONO NON AMORE è l’ultimo testo rappresentato dal gruppo nel 2016, scritto da Bellani e ispirato all’esperienza della mistica umbra Angela da Foligno.