Il dramma del mese
Storie di scorie di Ulderico Pesce
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Storie di scorie è in scena al Teatro dell’Orologio di Roma dal 6 al 24 aprile 2005. Diretto e interpretato da Ulderico Pesce. Le musiche dello spettacolo sono della tradizione contadina lucana e sono eseguite da Pasquale Laino, Sara Modigliani, Sonia Maurer e Antonella Iallorenzi. Produzione Centro mediterraneo delle arti.
Di cosa parla
Nicola, figlio di un contadino del Metapontino (MT) che, per “campare”, ha fatto di tutto. Ha lavorato come addetto alle pulizie nel deposito nucleare della Trisaia di Rotondella (MT) dove negli anni ’60 arrivarono 84 barre di uranio radioattivo provenienti dagli USA delle quali, 64 sono ancora conservate nel deposito lucano, altre riprocessate, altre ancora sono conservate nel deposito nucleare della Casaccia, a 25 chilometri a nord-est di Roma, dove è ancora in funzione un reattore nucleare, il Triga, che entro il 2008 dovrà sperimentare la “trasmutazione dei rifiuti radioattivi”, vale a dire dovrà tentare di bruciare il materiale radioattivo. Sperimentazioni che andrebbero fatte, per motivi precauzionali, lontano da centri abitati e corsi d’acqua. Nicola, avendo scoperto illeciti da parte dell’Enea è stato licenziato. Successivamente è partito volontario per la Bosnia dove, senza saperlo, ha respirato polvere di proiettile all’uranio e si è ammalato. Tornato in Italia ha fatto domanda alle Poste Italiane ed è stato assunto come postino a Saluggia (VC). La piccola casa che ha preso in affitto è sulla Dora Baltea e la finestra si affaccia proprio sul deposito nucleare del luogo. A novembre del 2003 decide di tornare in Lucania per partecipare alla protesta contro il decreto 314 emanato dal Governo, secondo il quale a Scanzano Jonico, paese dove è nato e dove suo padre ha un’azienda agricola, dovrà nascere il deposito unico di scorie nucleari italiane. Nicola si troverà al fianco della sua famiglia ad organizzare la protesta contro il decreto 314 e comincerà ad informare la popolazione sul pericolo del deposito nucleare della Trisaia di Rotondella dove ha lavorato anni prima e nel contempo denuncerà la situazione di alto rischio in cui vivono oggi i depositi nucleari di Latina, della Casaccia di Roma, di Caorso ecc...
La stampa
-Gazzetta del Mezzogiorno: “Ulderico Pesce, attore di grande bravura, è riuscito a costruire una splendida e riuscitissima pièce teatrale che è anche un’ opera di divulgazione scientifica.”
E. Bevilacqua
-Il Quotidiano: “Un’atmosfera caldissima e un fiume di applausi hanno accolto la prima teatrale di Storie di Scorie di Pesce.”
E. Gioia
-La Nuova Basilicata: “Trionfante e struggente è la simulazione della marcia del 23 novembre 2003 condotta da un popolo lucano unito, orgoglioso di difendere il proprio territorio.”
M. Petruzzelli
Ulderico Pesce, è stato definito da Rossella Battisti su l’Unità come “un narratore di un’Italia dimenticata. Del fare teatro passando per l’archivio, la memoria e poi agitando il tutto per un perfetto cocktail da scena. Teatro con senso e con anima che non finisce con la sigla “the end”, ma continua a lavorarti dentro e, magari, si aspetta che possa agire nella realtà.”
Presentazione
“Storie di Scorie” vuole ricostruire prevalentemente l’avvento dell’industria nucleare italiana, il pericolo che ancora oggi rappresenta e il funzionamento tecnico di una centrale atomica. Il testo racconta la storia del quarantenne Nicola, attraverso le peripezie della sua vita scopriremo gravi incidenti avvenuti nel settore nucleare italiano, indagini della magistratura e illeciti di cui non si è mai parlato. Lo spettacolo di Pesce capita in un momento storico in cui il governo italiano sta dando chiari segnali di apertura al nucleare ed è di pochi giorni la notizia dell’acquisto da parte dell’Enel di sei centrali nucleari in Slovacchia. In Storie di Scorie, il pericolo nucleare italiano: Scanzano, Saluggia, Casaccia di Roma, Latina, Rotondella, Ulderico Pesce, partendo dalla lotta del popolo lucano contro il decreto 314 con cui il governo voleva costruire a Scanzano Jonico il deposito unico di scorie nucleari italiane, racconta la situazione di pericolosità in cui versano oggi alcuni depositi nucleari italiani.
LA CASACCIA DI ROMA
L’attore-autore, con il suo stile disincantato e ironico, si sofferma sul deposito nucleare situato a 25 chilometri da Roma, (la Casaccia), località Osteria Nuova, che risulta essere il deposito con il più consistente quantitativo di rifiuti nucleari esistente in Italia: 6.270 metri cubi. Nello stesso Centro, per motivi di studio, è ancora in funzione un reattore nucleare, il Triga, che entro il 2008 dovrà sperimentare la “trasmutazione dei rifiuti radioattivi”, vale a dire dovrà tentare di bruciare il materiale radioattivo. Sperimentazioni che andrebbero fatte, per motivi precauzionali, lontano da centri abitati e corsi d’acqua. Nello stesso tempo il deposito della Casaccia scarica i suoi rifiuti liquidi nel torrente Arone che scorre in un'area densamente agricola, con una falda vicina alla superficie, percorsa da acquedotti antichi e moderni (Peschiera e Bracciano) che assicurano l'approvvigionamento a Roma. Il direttore dell'APAT Roberto Mezzanotte ha affermato: "gli scarichi vengono diluiti nell’acqua del torrente e causano una lieve contaminazione del corso d'acqua". Ma va detto che spesso nel torrente Arone scorre un filo d'acqua che non basta a diluire i rifiuti.
URANIO A ROMA
Nello spettacolo si parla ancora di Roma, dove la procura sta indagando su dieci barre di uranio radioattivo partite dalla California per lo Zaire ma poi dirottate in un quartiere della capitale dove sono state nascoste. Una delle dieci fu ritrovata a Roma nel 1998, e furono arrestate una decina di persone tra mafiosi catanesi e componenti della banda della Magliana. Nel 2001 il Tribunale di Catania ha condannato a pene miti questi criminali perchè il traffico di materiale radioattivo è considerato reato minore. Secondo gli inquirenti tali persone sono ancora in possesso delle nove barre rimanenti sottratte allo Zaire e si sospetta che siano nascoste ancora a Roma. Basterebbe comprimere una di queste barre di uranio in un materiale esplodente come una bombola a gas per far diventare radioattivo tutto il centro storico di Roma.
IL DEPOSITO DI SALUGGIA (VC) E QUELLO DI ROTONDELLA (MT)
Ulderico Pesce nello spettacolo racconta il pericolo relativo al deposito nucleare di Saluggia (VC) dove, a pochi metri dalla Dora Baltea, sono “conservate” 53 barre di uranio radioattive e circa 20 tonnellate di rifiuti liquidi ad alta radioattività, e la tragica situazione in cui versa il deposito situato nella zona Trisaia di Rotondella (MT), dove, oltre a 64 barre di uranio, ci sono 3 tonnellate di rifiuti liquidi. Lo stato italiano, già dal lontano 1975, vista la difficoltà di tenere sotto controllo rifiuti allo stato liquido che possono facilmente evaporare o cadere a terra infiltrandosi nel suolo, diede ordine di solidificare ogni liquido radioattivo presente sul territorio nazionale ma i fatti dimostrano che quell’appello è rimasto lettera morta. In più la magistratura ha dimostrato che in entrambi i depositi nucleari sopracitati i rifiuti liquidi sono conservati in cisterne “scadute” da venti anni, pertanto il loro livello di sicurezza è finito, tanto che, nel deposito di Rotondella, il 14 aprile del 1994, una delle due cisterne si è bucata e il liquido radioattivo è fuoriuscito depositandosi nella sottostante cella in calcestruzzo. Il medesimo deposito è stato il centro di un’altra indagine della magistratura che ha portato al sequestro di una tubatura interrata a circa un metro di profondità, lunga 4 chilometri, che parte dal deposito, attraversa molte aziende agricole e finisce nel mar Jonio dove scarica rifiuti liquidi di lavorazione. Il sequestro avvenne perché a marzo del 1993 la tubatura in questione scaricò nel mare liquido radioattivo. La magistratura ordinò di disseppellirla e che venisse rimossa dal mare perché contaminata. Invece quel tubo è ancora lì. (Sul sito internet: www.uldericopesce.com si raccolgono adesioni per togliere dal mare il tubo contaminato e per mettere in sicurezza le cisterne “scadute”). Il lavoro teatrale ricostruisce inoltre varie indagini giudiziarie e denuncia metodi di lavoro spesso improvvisati da parte dell’Enea, che fino ad agosto 2003 ha gestito i depositi nucleari presenti in Italia, successivamente gestiti dalla Sogin.
TRAFFICO DI PLUTONIO
Tra le indagini giudiziarie narrate da Pesce spicca quella, ancora oggi portata avanti dalla magistratura di Potenza, relativa ad un presunto traffico di plutonio (utile per fabbricare bombe atomiche), prodotto in Italia addirittura dopo il referendum del 1987 con il quale gli italiani dissero no al nucleare.
Nello spettacolo si parla inoltre di un presunto traffico di materiale nucleare tra l’Italia e l’Iraq avvenuto tra il 1975 e il 1978. A seguito della crisi petrolifera degli anni ’70 infatti, il governo Italiano, sottoscrisse un accordo con il governo guidato dal dittatore Saddam Hussein, che permetteva all’Italia di importare dall’Iraq petrolio a costo ridotto in cambio della fornitura di materiale nucleare. A seguito di detto accordo nel Centro Enea della Trisaia di Rotondella arrivarono circa trenta ingegneri nucleari iracheni.
Visite fuori orario di Roberto Russo
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Visite fuori orario è stato Segnalato in vari premi: nel ’97 al “Premio Flaiano”, nello stesso anno al “Premio Maschera d’argento- Rosso di San Secondo); sempre nel ’97 è stato Finalista del Fondi La Pastora . Nel ’99 è risultato Vincitore della Selezione dell’OUTIS, Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea, e proposto nella forma di mise en espace al Teatro Franco Parenti di Milano per la regia di Claudio Beccari.
Di cosa parla
Lofino è un maturo impiegato statale vissuto per 30 anni fra carte, pratiche e scartoffie. Ha fatto del suo archivio il proprio mondo e riesce addirittura, da ciò che vi è scritto, ad immaginare ciò che vi è dietro....drammi, commedie, esseri umani. Un pomeriggio riceve in ufficio la visita di una giovane commercialista di un famoso studio della città. Per una serie di avvenimenti fortuiti si crea fra i due un gioco crudele e pericoloso che li porterà a spogliarsi dei propri ruoli per mostrarsi per ciò che sono: due perdenti disperati e soli.
Presentazione dell'autore
Un ufficio pubblico, uno dei tanti. Uno di quelli, nei quali ci si reca malvolentieri per necessità, e, dai quali, non si vede l’ora di partire. Un ufficio composto da mura grigie, o da pannelli scoloriti e da linoleum dalla tinta incerta. Eppure in questi uffici vivono persone, e non per qualche giorno o per qualche mese. In questi uffici passa la vita che, ogni giorno, per tutti gli anni, si presenta sempre uguale a se stessa. La vita in ufficio è spesso presentata in maniera comica o grottesca (le beghe fra colleghi, i pettegolezzi, i tic), ma la forzata convivenza, il dover sopravvivere in uno spazio sempre identico che, a differenza di casa propria, non ci rappresenta; l’interscambiabilità dell’elemento umano e, nello stesso tempo, la ripetitività e l’immortalità delle cose, costituiscono il dramma sul quale si dipana “Visite fuori Orario”. Chi scrive ha una conoscenza diretta dell’ambiente del dramma. Spesso, in questi uffici, capita di scorgere suppellettili abbandonate (sedie, elementi di mobili, macchine da scrivere). Questi oggetti, dei quali si ignora, ormai, l’origine e lo stesso uso, restano per decenni sullo stesso mobile e rappresentano, nella loro immobilità, fatta di polvere e ragnatele, la vera metafora della vita eterna. Trascorrono gli anni, gli impiegati si avvicendano, ognuno si illude di ricreare un minimo di ambiente personalizzato (una pianta, un quadretto…), e poi con la pensione, o con un semplice cambio di stanza, tutto l’elemento umano precedente è spazzato via. La sola cosa che resta, costante, sono queste suppellettili che nessuno ha rimosso, testimoni muti di altri tempi, dimenticati, e di altra umanità della quale nessuno ricorda neppure il nome. L’uomo che ha per orizzonte sempre lo stesso orizzonte, la stessa veduta, dalla stessa finestra; che varca sempre la stessa soglia, che fa gli stessi gesti, per anni, per sempre. E’ il rapporto fra l’uomo e la stanza, suo nido, sua tana. Ognuno reca con sé le proprie speranze e le proprie ambizioni, e, inizialmente, pare che la stanza faccia fatica a contenerle tutte. Ma lentamente, anche le speranze, si conformano all’ambiente chiuso, si fanno restringere, incubare, soffocare, fino a spegnersi. In questo ambiente vive Lofino, il protagonista del dramma. L’uomo è un archivista di un ufficio tributario. Conosce il suo lavoro, le sue regole, e conosce solo questo. Si è adeguato alla sua stanza fino a farne la sua tana. La sua vita è quella. La vita degli altri gli viene filtrata dalle carte, fra le quali, quotidianamente, è immerso. E’ come se fosse in parcheggio da 35 anni ed è tale, ormai, l’abitudine a quelle quattro mura, e il distacco dall’esterno, che il parcheggio è divenuto residenza perpetua. Lofino si è abituato a ragionare per quelle e in quelle mura. Ma un giorno, durante un rientro pomeridiano, riceve la visita , per motivi di lavoro, di una brillante praticante di uno studio legale: Emma Goscè. Lofino passerà dal solito atteggiamento impiegatizio all’apparire di una donna (galante, un po’ ammiccante e, nello stesso tempo, arrogante, tale da dimostrare la sicurezza da “uomo”) ad un inaspettato spogliarsi delle solite vesti. L’uomo e la donna, ognuno per strade e con modalità diverse, hanno la consapevolezza della propria sconfitta e soprattutto l’uomo, sotto quella polvere di anni e di noia, cela, in sé, una personalità repressa e aggressiva, l’anima malata e disperata di un essere che ha visto la propria vita scorrere e avviarsi alla fine, come uno spettatore assiste al film nel quale non è coinvolto. Per qualche istante, però, Lofino avrà il coraggio di mostrare quest’anima violenta e imputridita, ma viva.
Roberto Russo
L'attesa di Pietro Dattola
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L'attesa ha ricevuto nel luglio 2004 il premio Oddone Cappellino con la seguente motivazione:
La Commissione Giudicatrice del Premio Oddone Cappellino – composta da Renato Zanetto, Maresa Castelli Venturini (Assessore alla Cultura del Comune di San Raffaele Cimena), Stefania Bertola, Giorgio Sebastiano Brizio, Wanda Capello, Ave Fontana, Franco Prono, Aldo Salassa (anche in rappresentanza di un gruppo di lettura composto da allievi del Liceo Scientifico Tecnologico “Amedeo Avogadro” di Torino) ha deliberato di attribuire il Premio Oddone Cappellino 2004 a: Pietro Dattola, ventiseienne catanese che studia a Roma, lavora nel campo dei videogames e frequenta un laboratorio teatrale universitario. Il suo testo L’attesa è un “dramma metafisico” dotato di una struttura complessa ed efficace: alcuni personaggi si trovano in un aldilà costituito da una serie di stanze che vengono da loro attraversate senza soluzione di continuità in attesa di un Giudizio che forse non giungerà mai. L’autore dimostra abilità nel rendere l’idea di un tempo non lineare, in cui si mescolano passato e presente, residui di realtà terrena, perplessità per l’attesa presente, preoccupazione e curiosità nei confronti di un futuro misterioso.
Di cosa parla
Sei personaggi si ritrovano in una sala d'attesa. La sala d'attesa, quella dopo la quale non ne verranno altre. In attesa del proprio giudizio, e in una sorta di composto bivacco, le sei anime hanno l'occasione di riflettere su questioni più o meno concrete, di interagire, di instaurare - là dove già non ce ne siano state in vita - significative relazioni tra di loro, vivendo situazioni dai toni più vari - vari come varia è la vita, in cui sacro e profano spesso non solo si mescolano, ma sono strettamente compenetrati, in cui il tragico e il comico si susseguono quasi senza darsi il tempo di un composto avvicendamento. Quella vita per la quale, prima o poi, forse, si verrà un giorno giudicati.
Presentazione dell'autore
Cosa accada dopo la morte è certamente il più straordinario mistero con cui l’uomo deve confrontarsi; un mistero curioso perché, a differenza di altri, è destinato a essere sciolto, prima o poi, da ciascuno di noi – e in prima persona. Il tema è senza dubbio affascinante (si sia credenti o meno) e offre infinite possibilità drammaturgiche. Una di queste era combinarlo con un altro tema, altrettanto carico di fascino e di potenzialità: quello dell’attesa. Attesa di cosa? Di un giudizio – il giudizio. Quello complessivo, cui non sfugge nulla. Quello crudele, perché per definizione giusto e quindi inappellabile. Quello di una vita.
I personaggi – quasi tutti privi di nome (e a che servono i nomi, a quel punto?) – si trovano ad attendere il proprio giudizio (sulle modalità del quale si rincorrono diverse voci, si fanno congetture, si ipotizzano scenari) e ciascuno lo fa a modo suo. Ciascuno, inevitabilmente, ha ragione di essere ansioso – non pare vi siano papabili santi tra di loro. Ciascuno lo dà più o meno a vedere. Ciascuno, quando l’attesa termina e sta per varcare la soglia della Porta del Giudizio, si prepara ad affrontare il Giudice a modo suo. Sapere di dover essere giudicati (e sapere che potrebbero derivarne la felicità o la sofferenza eterne) è di per sé terribile, ma non meno terribile è l’attesa cui i nostri vengono costretti – anch’essa soggetta a diverse interpretazioni. Dopotutto, l’onniscienza non dovrebbe essere naturalmente accompagnata da una istantanea capacità di giudizio? Invece l’attesa si prolunga – o, quantomeno, si rivela molto più lunga del previsto. In una sorta di composto bivacco, le sei anime hanno l’occasione di riflettere su questioni più o meno concrete, di interagire, di instaurare - là dove già non ce ne siano state in vita – significative relazioni tra di loro, vivendo situazioni dai toni più vari – vari come varia è la vita, in cui sacro e profano spesso non solo si mescolano, ma sono strettamente compenetrati, in cui il tragico e il comico si susseguono quasi senza darsi il tempo di un composto avvicendamento. Quella vita per la quale, prima o poi, forse, si verrà un giorno giudicati.
Nota: si cercano compagnie interessate alla rappresentazione del testo nell’ambito della XI edizione del Festival delle Colline Torinesi (giugno-luglio 2005).
Per informazioni contattare l'autore.
Una nota critica
di Sergio De Sandro Salvati
Il testo è ben architettato sia nella costruzione drammatica che nell’impostazione scenografica del “luogo” dove tutto si svolge: la sala d’attesa della Sede del Giudizio. Accomunati nella medesima situazione le persone, o meglio le anime, incontrandosi e familiarizzando (per quanto sia possibile tra sconosciuti) mettono a nudo la propria esistenza terrena raccontandosi i passaggi più conflittuali e critici, confrontandosi anche su come avrebbero reagito caso per caso a seconda delle loro diverse qualità caratteriali e origini sociali. Nella suggestiva ipotesi teatrale di Pietro Dattola il confine tra realismo e surrealtà è molto labile; spesso gli stessi personaggi vivono momenti di confusione domandandosi se il loro ritrovarsi e ragionare sia concreto o astratto, se abbia cognizione di causa o semplicemente sia il vaniloquio di soggetti provati dalla noia o dallo stress dell’attesa prima di essere giudicati come è accaduto in vita e come avviene questa volta forse definitivamente. Ma di questo non si ha certezza assoluta. E proprio la mancanza di certezze provoca ai nostri soggetti/personaggi/spiriti l’opportunità di spingere i loro dialoghi sull’ironia, la beffa amara, la derisione: un cocktail servito con uno spruzzo di fatale sentimentalismo e disincantata sincerità. Sul piano teatrale è questo l’aspetto vincente del testo che non è privo di sano moralismo, ma solo quanto basta.
Aspettando il Giudizio
di Gaspare Dori
Dio è morto? Oppure non dobbiamo fare altro che attenderlo, che continuare nelle nostre esistenze più o meno felici e abbandonarci un giorno alla sua giustizia infinita? Il teatro, che nell'antichità era sovente il luogo della rappresentazione del conflitto tra gli dei e gli umani, o della redenzione dei peccatori, per diversi secoli (quantomeno in Occidente) si è trasformato in una sorta di laboratorio di analisi riservato all'uomo. D'altronde, perché cercare altrove, se l'uomo ha in sé (e nelle cose che tocca, vede, consuma, costruisce) tutto ciò che di conosciuto e conoscibile esiste? Poi... poi sono arrivati i grandi totalitarismi, due guerre mondiali, Auschwitz, l'incubo della distruzione totale, ed il teatro è tornato ad essere il luogo nel quale interrogarsi sulla divinità. Sulla sua presenza, sulla sua forma, su quello che fa, su come ci guarda, su come ci giudica. Ma il teatro non può supplire alla fede, non può dunque rappresentare la divinità: lo spazio scenico, rappresentazione sublimata del mondo terreno, si trasforma allora in un non-luogo, un'anticamera, nella quale l'uomo deve accontentarsi di immaginare, di prefigurarsi e, soprattutto, di attendere. Il testo di Dattola si inserisce nel novero di quelle pièces che trattano dell'aldilà rappresentandone solo la parte temporalmente più vicina alla morte, quel momento nel quale si attende qualcosa. Così "A porte chiuse" di Sartre, così l'"Hotel dei Due Mondi" di Schmitt ed in parte il mio "Il lungo cammino degli elefanti". In tutti questi casi quello che è morto davvero non è Dio, ma il dramma borghese, naturalista, luogo simbolico del quotidiano. "L'inferno siamo noi" fa dire Sartre ad uno dei suoi personaggi, siamo noi ad aver reso impossibile il vivere, ad averlo sovraccaricato di sofferenze e di vincoli, di dolori e di violenze, facendo sì che la barbarie diventi un tratto normale della nostra esistenza. A differenza degli altri testi che ho citato, l'opera di Dattola non sembra porsi domande sull'esistenza di Dio nell'oltremorte. I personaggi de "L'attesa" sono tutti certi di incontrarlo, è solo una questione di tempo. Aspettano. Come Vladimiro ed Estragone, convinti dell'arrivo del loro Godot. E sono tutti persuasi che saranno giudicati. Ci si interroga solo sul come: sulle modalità, sulle domande che farà, sulla durata dell'azione. L'uomo non ha dunque scampo. "Cinquant'anni per un'eternità!" dice uno dei personaggi, presagendo quasi un esito drammatico. Ma forse l'uomo ha in sé ciò che serve per potersi giudicare: "Certi dicono che non è Lui a giudicare... che Lui mostra soltanto, e a giudicarti sei tu stesso...". L'onnipotenza dell'uomo (che crede di aver creato la giustizia terrena) e quella di Dio sembrano allora ricongiungersi... A parte la tematica, la pièce di Dattola è ben strutturata, con una suddivisione dello spazio scenico ambiziosa (le sale colorate rimandano alla memoria quelle della "Maschera della Morte Rossa" di Poe) ed una lingua estremamente ben curata. Tuttavia, per un curioso paradosso, proprio la lingua rischia di essere il punto debole del testo. Non è una lingua masticata e digerita, pronta per essere detta e sentita in scena: resta una lingua letteraria, a volte asettica, da laboratorio. Così i passaggi migliori sono quelli nei quali i personaggi riflettono meno e si lasciano andare a sfoghi inconsulti (come quello della Moglie): è lì che l'autore lascia il passo al personaggio, si mette in disparte e lo ascolta parlare. La lingua allora diventa libera, pura espressione dell'anima. Analogo discorso vale per le didascalie e le indicazioni sceniche, che sono assai frequenti e minuziose: se ciò può rendere il testo immediatamente "visibile" per il lettore, rischia tuttavia di trasformarlo in una gabbia per il regista che intenda seguire le indicazioni in maniera pedissequa.
Non si può che auspicare che Dattola, giovane autore dalle indubbie doti espressive, dia nelle prossime opere più libertà ai suoi personaggi e lasci maggiore spazio all'immaginazione dei fruitori dei suoi testi e dei futuri interpreti. Cercare la realtà piuttosto che crearla. Ma per uno scrittore che lavora ai suoi testi con tale cura e attenzione, c'è da credere che non sarà un esercizio difficile.
Rosanero di Roberto Cavosi
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Rosanero premio I.D.I 1993 e Biglietto d’oro Agis come novità italiana 1994\1995, ha debuttato al Teatro Comunale di Benevento, nell'ambito del Festival Benevento Città Spettacolo, il 14 settembre 1994. E.A.O. di Alessandro Giglio, regia di Antonio Calenda. Scene di Bruno Buonincontri. Costumi di Michela Pandolfi. Musiche di Germano Mazzocchetti. Interpreti: Alvia Reale, Antonella Schirò, Cetty Arancio, Daniela Giovanetti, Anna Lezzi. Un nuovo allestimento nella stagione 1999-2000 ha debuttato a Rieti, al Teatro Vespasiano, nel gennaio 1999. Compagnia Teatro Moderno di Claudio Padovani. Regia Piero Maccarinelli. Scene di Alberto Andreis. Costumi Sabrina Chiocchio. Musiche Antonio di Pofi. Interpreti: Ottavia Piccolo, Milvia Marigliano, Renata Palminiello, Micol Pambieri, Silvia Salvatori.
Di cosa parla
La veglia funebre a Giuliana Miceli, morta a ventidue anni di anoressia, è spunto per le sorelle Beatrice, Carlotta, Vannina e per la cugina Suor Rossana di approfondito e lacerante confronto. Giuliana, quasi novella Antigone, usava la malattia per difendersi dalla sua famiglia fortemente invischiata nel tessuto mafioso palermitano. Dopo tre anni, le sorelle, riunite davanti alla salma, si ritrovano a dipingere il ritratto della "ribelle" tra un gloria ed un'Ave Maria, senza risparmiare parole dure e crudeli : il ricordo di Giuliana si fa via via più vivo fino ad arrivare ad una vera a propria materializzazione. E' Vannina che racconta l'ultimo incontro con la sorella, un incontro segreto e disperato seguito alla morte del fratellino Emanuele, baby spacciatore rimasto vittima di un regolamento di conti. Che cosa, in definitiva, ci vuole raccontare Rosanero? Certamente la forza e la tenerezza di un legame così intimo, ma così frustrate dalla spietata concretezza della vita; certamente la cruda girandola di questi destini che fanno la miseria della nostra esistenza. Ma anche, e soprattutto, il profondo e disperato desiderio di giustizia e di libertà che è in ognuno di noi con la dirompente gentilezza di chi è nel giusto, in una pagina del nostro tempo, nel piccolo appello di chi ha saputo, pur se lasciandosi morire, ribellarsi alla violenza.
La stampa:
“Il pregio di questo testo è nell’aver trovato gli accenti aspri della tragedia antica sotto l’intramatura di un fatto di cronaca del nostro tempo…”
Il Giorno. Ugo Ronfani (16 sett. 1994)
“Né Sascia e neppure Fava avevano descritto con tanti risvolti psicologici una storia di morte e di mafia così come appare in Rosanero”
Giornale di Sicilia. Gigi Giacobbe (20 marzo 1995)
“Il dramma (…) si impone per una sua crudezza ascetica, per un suo gioco al massacro in famiglia, ed è una di quelle opere che non ambiscono a filoni o a mode, coniando semmai una drammaturgia ammonitrice, uno spaccato di metafore a distanza d’un palmo dalla nostra realtà, racchiudibile però in una controversia intima e fosca, tale che dalla dettagliata osservazione di un nucleo marcito si giunge a trasfigurare l’angoscia di una classe sociale, di un’epoca.”
La Repubblica. Rodolfo Di Giammarco (20 sett. 1994).
“(…) La parola “mafia” viene peraltro usata pochissime volte. E il colore, il folclore connessi, sono sostanzialmente evitati. Così la vicenda, circostanziata e credibile nel contesto specifico, potrebbe pur avere luogo in altre terre, senza veder diminuiti la sua carica critica, il suo respiro morale.”
L’Unità. Aggeo Savioli. (19 sett.1994)
“Rosa e nero, trepidazione e verità luttuosa, si mescolano nel bel testo di Roberto Cavosi, quasi l’unico autore di oggi ad avvincerci con storie appassionanti che pure nascono e crescono su elementi personaggi e situazioni della nostra storia recente.”
Amica. Gianfranco Capitta (19 febb.1999)
“Ecco un bel testo contemporaneo. (…) Una vicenda ribollente di domande inquietanti, tutta mossa intorno a un pozzo nero di dolore e letta esclusivamente al femminile.”
Avvenire. Domenico Rigotti (15 aprile 1999)
“Oggi che c’è tanta voglia di voltare pagina, che nessuno sembra più voler sapere chi c’era dietro le bombe del 93’, un testo così mi sembra importante. Perché pone domande, mette in mostra un sistema di cultura la cui sopravvivenza è la più forte garanzia perché la mafia continui a prosperare”
Corriere della Sera. Da un’intervista di Ranieri Polesine a Ilda Boccassini riguardo a Rosanero. (12 aprile 1999)
Dalle note di regia di Piero Maccarinelli
Il testo di Cavosi analizza la complessità dei rapporti di un gruppo di donne di una famiglia di mafia. Testo affascinante, soprattutto per la risposta al problema della responsabilità individuate in rapporto alla colpa collettiva. "Siamo una manica di complici piccoli e meschini", risponde ad un certo punto la cugina suora a Vannina Miceli, la capofamiglia, e in questa affermazione sta gran parte del senso ultimo del testo di Cavosi, un testo importante, perchè rimette in discussione il concetto di colpa individuale rispetto a scelte definitive, estreme, come l'assassinio di un bambino, il più piccolo dei Miceli. Fra l'esecutore ed il mandante, fra chi compie il gesto e chi per opportunismo sceglie il silenzio, la complicità occulta (fingere di non sapere per non perdere i propri privilegi), c'è davvero tanta differenza? Qui si parla di mafia, di un sistema di potere totalitario e gerarchico, ma si potrebbe parlare di qualsiasi totalitarismo. Mi ricordo di un bel libro di Allen, "Come si diventa nazisti", in cui l'autore parla di un piccolo paese della Baviera negli anni Trenta e del primo sputo lanciato fra l'indifferenza dei passanti a un diverso, a un oppositore... Questa indifferenza, questa apatia non sono forse il primo segno di una complicità e di un asservimento a un sistema di potere? E la fuga di Giuliana nell'anoressia o l'ignavia della cugina suora non sono altre forme di complicità occulta? Nessuno è innocente, l'innocenza si paga a caro prezzo e non c'è, tra le donne Miceli, chi sia disposta a pagare questo prezzo. (...) Se il teatro ogni tanto ha una funzione civile, politica (nel senso più alto del termine), credo che questa volta possiamo rivendicare di aver fatto un pur piccolo passo oltre il palcoscenico, in mezzo alla società.
Nota dell'autore:
"Rosanero" è nato dalla mia volontà di raccontare il mondo femminile intorno alla vicenda di Antigone. La distanza culturale con l'antica Grecia mi causava però non pochi problemi. Quindi, piuttosto che creare un prodotto posticcio, mi sono deciso a compiere un balzo verso i giorni nostri. L' uccisione di Polinice ed il governo tirannico di Creonte mi hanno istintivamente portato alla violenza del mondo mafioso. L' ambito sociale ora era pronto, si trattava a questo punto di dipanare una storia, all'interno della quale fossero ancora presenti Antigone, Creonte, Polinice e via discorrendo, ma soprattutto quel mondo femminile al quale mi ero inizialmente ispirato. Ignorando scrupolosamente la cronaca mi sono rituffato nel mito e in un'analisi psicologica di Antigone quasi fosse un personaggio moderno. Dalle sue caratteristiche ho rilevato "la paziente" sofferente di anoressia: niente di più contemporaneo. Ora avevo un'Antigone, ribattezzata Giuliana, che mi permetteva di agire pienamente all'interno del mio mondo. Ma la storia? La storia a questo punto è venuta da se con la sola aggiunta di un personaggio completamente avulso all'antico mito: suor Rossana. Era I'ultimo anello che mi mancava, I'ultimo ponte tra la cultura greca e la nostra: di sicura matrice cristiana. Il testo è una sentita condanna alla società mafiosa, alla sua assurda, "tragica", volontà di morte ed alla sua ormai sclerotizzata incapacità a saper generare un qualsiasi elemento positivo. "Una madre senza ventre" è appunto il simbolo che ho scelto per descriverla. Simbolo che viene incarnato nel testo dalla sorella di Giuliana, Vannina, novella Creonte, forte e straziato ritratto di una donna che ha negato se stessa per aderire al dovere di "stato". Cosa, quindi, racconto con "Rosanero"? Sicuramente la tenerezza dell'intimo e lacerante legame tra le sorelle Giuliana e Vannina, opposte nei loro ruoli d'Antigone e Creonte. Ma anche, e forse soprattutto, il profondo e vivificatore disperato desiderio di giustizia e di libertà che è insito in ognuno di noi. A questo desiderio Giuliana si aggrappa con tutte le sue forze, fino allo stremo, porgendolo a noi con la dirompente energia di chi è nel giusto. Una pagina quindi del nostro tempo, senza tempo, nel piccolo appello di chi ha saputo ribellarsi alla violenza e di chi ha saputo come Vannina, e qui è la catarsi, pagarne amaramente, lo scotto.
Roberto Cavosi